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Dancing on Nature _ Intervista a Nicola Fornoni
La Digestion – intervista a OTOMO YOSHIHIDE
ORTICA#4 – NICO NOTE
NicoNote (It/A) è l’alias artistico creato nel 1996 da Nicoletta Magalotti (1962) performer, autrice e artista trasversale nota per la sua vocalità che si muove liquida tra i generi e i formati. NicoNote agisce nei territori di musica, teatro, installazioni e clubbing con produzioni artistiche e curatele. Dalla new-wave italiana con i Violet Eves al teatro di Romeo Castellucci e Socìetas Raffaello Sanzio passando per il Morphine Club del Cocoricò e il teatro musicale di Francesco Micheli, la sua ricerca vocale spazia tra la pratica musicale e teatrale, guidata dall’ incontro con maestri quali Gabriella Bartolomei, Yoshi Oida, Roy Hart Theatre, Akademia Ruchu, Tiziana Ghiglioni, Francois Tanguy. Ha all’attivo una intrigante discografia dal 1985 ad oggi con tour musicali e teatrali in tutta Europa, Canada, Israele, Argentina, Brasile. Recentemente ha pubblicato l’album Limbo Session Vol I con il producer Wang Inc. per Rizosfera, Rough Trade (UK) 2021, progetto tra voce, poesia, improvvisazione. Collabora con etichette come New Interplanetary Melodies, Kuro Jam recordings, Lady Day Rec, Music from Memory (NL), DSPPR records (UK) e conduce regolarmente masterclass sulla voce. Syntonic è il suo programma mensile su Radio Raheem.
La tua ricerca si muove in un terreno molto ampio tra il teatro, le arti performative e la musica. Quali sono le pratiche di libertà che ti permettono di spaziare, tenendo al centro la voce?
Paradossalmente è proprio il fatto di essere un’artista outsider e nascosta. Non escludo generi né ambiti. Ad un certo punto del mio percorso ho scelto la sparizione, ho abbracciato una dimensione laterale sotterranea nel procedere. Ciò mi permette e mi spinge a cercare sempre nuove intuizioni per manifestarmi. Ogni progetto ha la sua cifra, ha il suo respiro. Questo è il fulcro del mio lavoro. Seguo la mia motivazione, la coltivo con
grande cura dandole uno spazio fondante nella mia pratica. Questo sprigiona spazi di libertà che nel tempo sono divenuti una condizione necessaria, raggiunta con fatica e con coraggio. È la motivazione a guidarmi e a segnalarmi il cammino. A indicarmi la pertinenza e con quale sguardo affrontare i vari progetti. E da lì con una ars combinatoria direi intuitiva e attenta, il mio focus di volta in volta si chiarisce consentendomi di affrontare i territori più disparati. Il punto è tenere la motivazione come bussola per individuare la giusta cifra. Né bella né brutta, ma esatta. Giusta.
Sei stata Cassandra nell’Orestea (una commedia organica?) di Castellucci, cosa porti con te di questa esperienza? Cassandra è colei che è destinata a non essere ascoltata, cosa vuol dire secondo te essere ascoltati oggi?
Mi fa piacere che citi quello spettacolo. Essere parte dell’Orestea è stato davvero molto potente. Una occasione direi viscerale e seminale. Tutto, dall’esperienza della costruzione del personaggio alla dimensione umana, una occasione incredibile. Potente da un punto di vista teatrale come performer e umanamente, ancora c’è amicizia con alcuni attori e attrici di allora. Sono legami forti che non si possono descrivere a parole. Lo stesso vale per la relazione con Romeo e tutto il nucleo storico della Societas, un senso di appartenenza. Di valori condivisi, molto forte. La situazione del ’95 quando costruimmo lo spettacolo era davvero lontana anni luce da oggi, molto archetipica, erano tempi eroici. Solo per farti un esempio al Teatro Comandini non c’era il riscaldamento. Romeo allora non era ancora l’astro del teatro mondiale che conosciamo oggi, per me è sempre stato un genio, fu per questo che accettai subito di dedicarmi allo spettacolo concedendo la nudità, al tempo non scontata e direi rivoluzionaria per la sua particolarità. Porto con me la forza propulsiva di centinaia di repliche in giro per il mondo, un capolavoro della storia del teatro europeo. Cassandra l’inascoltata. Il destino di una lingua inascoltata. Oggi l’ascolto è più che mai qualcosa di prezioso. Cosa vuol dire? Ci sono angoli, nicchie appartate dove intercettare l’ascolto. Non è facile trovare questa attenzione. Ascoltare è qualcosa che supera il sentire, lo comprende. Ascoltare è abbracciare il suono e lo spazio del suono. È anche
avvertire il proprio pensiero mutare, attraverso l’ascolto. Oserei dire, finalmente trovare il silenzio. Ecco ascoltare oggi è trovare il silenzio.
Parlando di un’altra figura vorrei chiederti, come è nato il tuo amore per Ildegarda di Bingen e con quale approccio hai iniziato a lavorare su di lei?
Ho incontrato Hildegard negli anni della adolescenza studiando il medioevo, mi colpi subito, prima come figura incredibile, una donna di quel tempo che incontrò sia l’imperatore, il potere temporale, che il papa, il potere religioso. Trovò la forza e l’ispirazione la determinazione per relazionarsi ad entrambi. Poi mi impressionò la mole di pensiero e di ispirazione letteraria e di ricerca interdisciplinare che ella produsse. Sia in
campo teologico che nella medicina naturale e sulla produzione musicale. Insomma questa figura di donna dell’alto medioevo della Germania del nord che si erge a gigante della cultura occidentale, il suo essere donna in un mondo di uomini, l’ho sempre trovata fantastica! La santa della luce. Questo suo legame con il divino, con il cosmo, rivela con forza un legame indissolubile con la luce. Le sue visioni sono costellate di luce…e questo mi ha sempre affascinato. Poi succede che nel 2003 raccolgo l’invito di Roberto Cacciapaglia a presentare un mio lavoro a Milano, per una rassegna curata da Don Luigi Garbini, musicista compositore che a San Marco in Brera ospitava una rassegna di musica sacra ‘contaminata’ nei suoni e nelle proposte. Fu in quella occasione che ho deciso di fare qualcosa su Hilde. Non un recital ma un lavoro, una perfomance sonora che avesse una drammaturgia, che evocasse Hilde, con suono elettronico parole voce. In quel periodo collaboravo con i dj e producer Mas Collective. Il mio approccio era ed è di grande rispetto per la materia sacra, ma non è un concerto di musica sacra. L’approccio non è filologico ma evocativo, viscerale. Una ricerca per trovare una lingua mia, personale che potesse contenere tracce di Hilde. Un lavoro sulle sue tracce. Ne è nata una suite per voce ed elettronica dal titolo REGOLA. In questo periodo sto registrando proprio questo lavoro, che ho ripreso in mano nel 2020 durante la pandemia, dopo 20 anni. Un rework, una rielaborazione, con suoni immersivi a cura del compositore e sound artist Demetrio Cecchitelli, in studio con il producer Dani Marzi. Diventerà un album per New Interplanetary Melodies di Simona Faraone, che si è innamorata del progetto e lo vuole sulla sua etichetta. Sono molto emozionata. Un progetto a cui tengo particolarmente.
Lavori anche nel mondo del club con live set, cosa ti interessa o diverte maggiormente di questa dimensione?
Fin dagli anni ’80 ho avuto varie opportunità e interesse a lavorare nel clubbing in Riviera, anche collaborando alla creazione di esperienze singolari come il Lady Godiva al Grand Hotel di Rimini, Insomnia alle Navi di Cattolica il Lili Marlene a Misano Santamonica, il Morphine al Cocoricò di Riccione, fino ai primi anni zero. Poi ho continuato portando formati ibridi dj-set / live set -clubbing oriented, a lato della mia ricerca più drammaturgica, creando eventi itineranti o site specific come Squat Night, In Limbo musica+clima, Domenica Facile, Foyer!, Cabiria Happy house. Inizialmente ciò che mi interessava era lavorare sullo spazio, sulla creazione di luoghi liberi, luoghi di ibridazione dei generi e degli stili. Intrattenimento con incursioni di qualità artistica di culto. Ho preferito luoghi forse nascosti, come ad esempio il Morphine, che poi nel tempo, hanno assunto forza, diventando punti di riferimento. Un approccio installativo con un certo dosaggio clubbing. Sì, Club, come meliting pot di culture, punti di vista, luogo dove le tendenze si mescolano, scomparendo e assimilandosi tra loro. Il mio stare nel Clubbing va dalla metà degli anni ’80 alla metà degli anni zero. Un percorso che porto con me. Musica, clima e condivisione, sono elementi per me sempre molto importati. Su questa base si fonda ad esempio il progetto Limbo Session, un live particolare, che proprio con questo titolo regalavo agli ospiti del Morphine e che ora ripropongo come ‘’performance di clima sonoro’’. Un concerto improvvisato, per voce, parola poetica, elettronica, che propongo insieme al producer Wang Inc. Una sorta di laboratorio sonoro d’autori, sospeso tra poesia, sperimentazione e dancefloor. Questo è ora anche una produzione discografica, l’album Lp in vinile 33 giri, si intitola Limbo Session vol 1 (Rizosfera, Rough Trade 2021). Un flusso di suono nello spazio. Reale o immaginato. Un progetto Post Clubbing, ibridato, non codificabile. E questo mi diverte molto.
Da anni porti avanti diversi progetti per la formazione, cosa ti preme trasmettere rispetto alla vocalità e alla multidisciplinarietà?
Mi preme lavorare con gli allievi sulla identità artistica e vocale di ciascuno. Mi interessa valorizzare e tirar fuori il meglio da ognuno, far emergere la consapevolezza della propria specificità. Far trovare la propria voce agli allievi, focalizzare la relazione corpo voce spazio e pensiero, e segnalare un metodo di discernimento nell’ascolto e nella composizione. Mi metto a servizio di ciò che il materiale umano che ho davanti mi richiede
e cerco di essere stimolante per far progredire e per cercare sempre nuove piste di ricerca. Questo vale anche per me, la relazione allievo maestra è reciproca, crea energia laddove ne cedi all’altro, in maniera direttamente proporzionale. In questo senso mi attivo a tutto tondo, ogni lezione è differente dall’altra. Ci sono molto territori da indagare, non solo la voce, per poter entrare in connessione con il proprio strumento, ogni allievo porta con sé il suo filo. Per ognuno di noi c’è sempre una nuova domanda da ‘trovare’. In realtà cerco proprio nuove domande, sono loro ad aprire piste inattese. Ho una base di lavoro a Bologna presso lo Studio Spaziale di Roberto Rettura, dove incontro i miei allievi in percorsi individuali. Durante il 2020 ho iniziato anche percorsi on line, ho allievi da tutta Europa, e questo è molto divertente. Anche bizzarro. Talvolta
quando mi viene chiesto propongo workshop di gruppo su focus specifici. Per me è sempre molto avvincente trovarmi a trasmettere il mio know-how e metterlo a disposizione, mi entusiasma avvertire il processo di crescita negli allievi. Mi piace molto e lo sento una fonte di ispirazione e creatività. Un’altra esperienza molto interessante è quella insieme alla bravissima Monica Benvenuti, soprano lirico voce per Sylvano Bussotti
e interprete contemporanea raffinatissima. Insieme abbiamo creato un laboratorio sulla vocalità contemporanea, a Firenze col sostegno di Tempo Reale. Si tiene annualmente in forma di workshop. Il laboratorio si chiama Voci possibili, sì perché siamo tante voci, tante tessere, frammenti di voci, anche lontanissime. La voce che è aria, non si tocca, ma tocca, colpisce, si relaziona all’esterno, è un processo
fisico-anatomico eppure va nell’anemico, nel corpo sottile, sollecita il mondo delle emozioni. Voce ballerina dell’aria, strumento che non si può riporre nell’astuccio dopo le prove, si utilizza anche nel quotidiano. Come dice Berio ‘indagare sulla voce è come sbucciare una cipolla, c’è sempre un nuovo involucro da scoprire’.
A quali nuovi progetti lavorerai nel prossimo futuro?
In divenire … L’album che raccoglie il lavoro su Hildegard von Bingen tratto dalla perfomance sonora Regola. Uscirà per New Interplanetary Melodies nel 2024. Come dicevo sto ultimando la registrazione del disco, poi vorrei focalizzare anche sulla performance per proporla con più incisività. Poi è in nuce una performance-storytelling dedicata allo scrittore Thomas Bernhard, insieme al saggista Luca Scarlini, col quale ho
sviluppato un dialogo più che decennale, creando negli anni progetti di storytelling tra suono e letteratura, dal barocco al gotico, da Satie a Ingeborg Bachmann. La serata dedicata allo scrittore austriaco verrà presentata al Festival Intermittenze a Riva delGarda in settembre. In un futuro approssimativamente non lontanissimo poi, vorrei proseguire la ricerca con Wang Inc per un secondo volume di Limbo Session con edizioni
Rizosfera, chissà magari anche con ulteriori sinergie sonore, ma senza fretta e senza scadenze… Proseguo il percorso su Radio Raheem con il mio programma Syntonic, appuntamento mensile, libero, ibrido, sempre differente. Sintonizzatevi! … e grazie per l’interesse. A presto, Nicoletta Magalotti aka NicoNote
Intervista Alessandra Eramo. A cura di Diana Lola Posani.
Prima di tutto ci faresti un’introduzione del tuo lavoro?
Prima di tutto ci faresti un’introduzione del tuo lavoro? Sono un’artista che lavora principalmente con la voce e il suono. Creo performance e installazioni, spesso utilizzo anche il video e il disegno, esplorando la voce umana e il rumore in tutte le loro sfaccettature. Ho una formazione sia musicale che nelle arti visive, sono interessata alla pratica e ricerca interdisciplinare. Durante gli studi accademici, ho iniziato ad esplorare intensamente la mia voce. Avevo 21 anni quando mi sono trasferita in Germania, mi trovavo immersa quotidianamente nell’ascolto di una lingua nuova. Iniziai a parlare tedesco e potevo osservare il mio corpo, la mia bocca, la mia postura, la mia voce che cambiava in uno stato di instabilità, ho intuito che tutti quei suoni, fonemi, vocalizzazioni da “straniera” sono interessanti, essi diventano materia viva per le mie
composizioni. Traggo molte ispirazioni dalle lingue che non conosco, dal paesaggio in senso sia reale che immaginario e dalle micro-storie che ne emergono. Negli ultimi anni ho creato opere performative, concerti, opere radiofoniche e installazioni multimediali. Nei miei lavori affronto tematiche legate al corpo, migrazione, identità e memoria sonora. La memoria è per me un topos di continua esplorazione: la memoria della
nostra voce che si manifesta in emozioni sconosciute, la memoria di un gesto grafico su carta che può manifestare e rivelare nuove tracce sonore interpretabili in musica.
http://www.ezramo.com/works.html
“La Santa Monica” è una performance sonora che ho presentato a luglio 2022 presso KORA Centro del Contemporaneo a Castrignano De’ Greci (Lecce) per la mostra collettiva “Parla del Tuo Villaggio”. Per quest’opera, che ho iniziato ad elaborare nel 2021 a Berlino ancora durante la pandemia, ho cercato di creare una profonda esperienza di ascolto collettivo assieme al pubblico attraverso l’uso di voce, field recordings, testo, disegno, e sale marino. Il titolo “La Santa Monica” è l’italianizzazione de A Sand’ Monec’, il nome in dialetto di un antico rituale di divinazione pugliese, tra paganesimo e cristianità. Al centro di questo rituale erano la voce e l’interpretazione magica dei suoni ascoltati dal balcone e dalla strada, spesso negli incroci stradali – luoghi anticamente reputati sacri e dove si manifestavano anime, madonne e santi. Nel rito de A Sand’ Monec’ tutti i suoni uditi come ad esempio il vociare delle persone che camminano per strada, l’abbaiare di un cane, il miagolìo di un gatto, il fischio di un treno lontano, lo squittìo della civetta, il rumore della pioggia, di un tuono, sono segni interpretabili e rivelano un destino. Per la mia performance ho creato un rituale diverso, nuovo, in cui ho messo in campo suoni della nostra realtà contemporanea. Nel fare ciò, ho avuto modo di elaborare l’esperienza stranissima che abbiamo vissuto nel lockdown durante la Pandemia di ascoltare il mondo dal balcone o dalla finestra di casa.
Qual’è la radice culturale di questa pratica? Ci racconti come ti è stata tramandata questa tradizione?
Il rituale de A Sand’ Monec’ era praticato dalla mia bisnonna a Castellaneta, una cittadina in provincia di Taranto. Mio padre mi ha raccontato di come sua nonna fosse solita accogliere nella terrazza di casa un gruppo di donne alla mezzanotte, per pregare insieme la Santa e chiederle di inviare dei segni sonori – ma anche visivi. Ascoltando, lei stessa avrebbe saputo interpretare questi suoni. Tali segni sonori funzionavano quindi come risposta ai quesiti delle donne riunitesi lì alla mezzanotte, domande riguardanti i loro desideri, sogni e tormenti esistenziali. Ad esempio: il miagolio del gatto significa litigio / il fischio del treno significa che il marito torna sano dalla guerra…etc. Il rituale era dunque guidato da una sorta di “sciamana” devota pugliese, che in questo caso era la mia bisnonna. Era un modo estremamente creativo e immaginifico con cui le donne comprendevano e vivevano la propria realtà, mettendosi in ascolto. Mio padre mi ha raccontato che da bambino ha assistito di nascosto al rituale de A Sand Monec di sua nonna e le donne. E mi ha anche raccontato aneddoti comici, come quando una volta lui si era nascosto in casa in prossimità del terrazzo dove le donne si erano incontrate e stavano svolgendo il rituale, e allora lui si divertì a disturbarle e prese ad imitare il latrato di un cane lupo “Uuh! Uuhhhhhh!”, e quindi sua nonna si arrabbiò molto e lo cacciò. Io ho ereditato il racconto di questo antico rituale in casa, in un’atmosfera allegra, non l’ho ereditato attraverso libri di antropologia. Mi affascina il fatto che dentro ognuno di noi possano stratificarsi esperienze dei nostri avi. Attraverso queste stratificazioni, o “sedimenti”, gli avi continuano a vivere nel presente, a volte in forma di racconti o di
canzoni. Pur appartenendo ad un’altra generazione, io sento molto vicino l’approccio all’ascolto del mondo circostante che quelle donne pugliesi adoperavano, ne faccio tesoro. Mi piace l’idea di trasformare questi “sedimenti”, di focalizzarmi su piccole storie che diventano di fatto storie universali.
Questo rito è composto da stratificazioni di simboli: la notte, le donne, i balconi, il silenzio, la preghiera, il luogo oracolare… Quali di questi simboli sono entrati a far parte della tua performance?
Cercando di attivare la memoria di questa pratica divinatoria arcaica di invocazione e interpretazione della realtà, nella performance uso come strumento acustico un mucchietto di sale marino, che funge da elemento purificatore. Il sale ha un suono ruvido, e con microfoni e una scatola di legno lo manipolo e trasformo in un oggetto sonoro, evocando il suono dell’acqua di mare, come un ricordo, un’eco lontana. Leggo un mio testo-preghiera dal vivo. La mia voce canta un racconto astratto e non lineare, essa diventa spazio tra pubblico e privato, tra l’interno e l’esterno, proprio come il luogo del balcone. Il corpo si espone quindi in un rituale “sulla soglia”, in stasi e in movimento. Creo un percorso circolare su un lenzuolo bianco steso a terra dove ci sono i miei disegni-partiture musicali, trascrizioni dei suoni che ho registrato e ascoltato durante la residenza a Castrignano De’ Greci a giugno: principalmente ho ascoltato e registrato di giorno ma soprattutto di sera tardi il canto degli uccelli, sembrava che questi avessero riconquistato il villaggio. Cosa può raccontarci questo paesaggio sonoro? Forse che a Castrignano ci sono molte case vuote, come in molti paesi del Sud-Italia, e quindi la natura si riappropria degli spazi precedentemente abitati dalle persone. Durante la residenza ho potuto ascoltare e registrare anche i racconti di alcune donne sugli uccelli di Castrignano, tra cui la storia di una donna a cui è morta la figlia e recentemente tutti i giorni viene a vistarla una gazza nel suo giardino e mangia un pò delle pere del suo albero. La donna è convinta che la gazza sia l’anima della dolce figlia defunta. Lascio confluire nella performance in modo delicato queste micro-storie, le impressioni, i silenzi, nuove preghiere, rumori e suggestioni provenienti dal reale.
Come hai mantenuto la dimensione di ascolto profondo che è al cuore di questo rito nell’atto espressivo?
Ascolto il mondo con attenzione e cerco forme prolungate e modalità lente, contemplative. Ascoltare per me significa dialogare con il mondo intorno. Mi interessa mantenere un’attitudine alla cura di ciò che di prezioso la realtà sonora attorno ci offre. Evito consapevolmente ogni forma di virtuosismo che possa diventare inutile manierismo o peggio auto-celebrazione, sia nell’uso delle mie tecniche vocali che in quelle di registrazione. La capacità di ascoltare senza dubbio si basa su un’attenzione profonda che va esercitata e sviluppata con rigore, come per qualsiasi tecnica.
Come si esprime per te l’affinità tra rito e performance?
A proposito di modalità lente in una società che invece ci vuole consumatori e sempre connessi, nello spazio rituale della performance dal vivo ho la possibilità di stabilire un tempo mio, dove non sto consumando qualcosa, ma la sto usando per condividerla con le persone nel pubblico. Le pratiche rituali generalmente offrono la possibilità di rapportarci in modo equilibrato non solo con le altre persone, ma anche con le cose inanimate, con gli animali e con la natura.
Quali sono le prospettive per la Santa Monica?
Sto approfondendo la pratica dell’ascolto serale e notturno. No, non soffro d’insonnia, anzi! Mi affascina l’esplorazione di quello stato tra la veglia e il sonno, quando fuori sembra tutto più silenzioso e amplificato, il tempo sembra rallentare, ci sono le stelle e la luna. Su invito di Piersandra Di Matteo (Short Theatre) per la rassegna Fermento. Territori.Suoni.Moltidudini a Roma nel Municipio 3 a Novembre e Dicembre ho realizzato
la mia nuova performance sonora per coro e field recordings Canto Notturno, insieme a un gruppo di performers e persone residenti a Roma. Ci siamo immersi nell’immaginario notturno e nel paesaggio in continua evoluzione della città. In Canto Notturno il coro mette in scena le suggestioni acustiche crepuscolari semi-nascoste e udibili dello spazio urbano, creando una drammaturgia vocale di canti, rumori, ninna nanne, preghiere e lingue inventate. Tutto ciò, partendo dal potere immaginativo della notte e dai suoni misteriosi che essa offre, esplorando appunto lo stato tra il sonno e la veglia. L’11 Dicembre abbiamo presentato pubblicamente il lavoro presso gli spazi di Brancaleone a Roma, è stata un’esperienza di grande intensità.
Fotografie:
© Gabriele Albergo
© Wendelin Büchler
Tempo e suono. Intervista a Perry Frank.
In un momento in cui l’arte si interroga sulle crono/politiche e in cui la nostra percezione del reale post-pandemico, dentro e fuori gli schermi, fatica a trovare un baricentro, la musica ambient può venire in nostro soccorso.
Le composizioni di Perry Frank sono frazioni di secondo dilatate, un obiettivo che “zoomma” sull’infinitesimale.
Nel progetto Làcanas sono i passi del “ballu sardu”, i suoni dell’organetto e delle launeddas che vengono processati per essere eternizzati in un’immagine sonora di festa, potente ed estatica. È il linguaggio onirico e psichedelico di Frank, sulla scia di Vangelis, Fennesz e Basinski, ma con una traiettoria assolutamente personale, che emerge in tutti i lavori discografici e nei due Ep realizzati nell’ultimo anno per Valley View Records.
Associo la tua musica alla nozione misterica di αἰών: nella tradizione greca, la personificazione del tempo, non quello misurato di Chronos, ma quello eterno e infinito del succedersi delle ere. Come vivi il rapporto con la temporalità mentre componi e mentre suoni?
Ti ringrazio davvero per questa associazione ricercata e per niente banale. Il rapporto con il tempo credo sia uno degli aspetti più strani della mia vita. In generale posso dirti di non averne un concetto paragonabile a quello della maggior parte degli altri individui e mai come nel mio caso la soggettività e la relatività del tempo assumono un valore distante anni luce dal resto. Sono una persona molto lenta in tutto, sono perennemente in ritardo, e sono un procrastinatore dannatamente senza speranza. Mi capita spesso di osservare il mondo che corre veloce attorno a me mentre io mi muovo a piccoli passi, senza però rimanere mai fermo, questo lo riconosco. Tutto ciò si riflette anche sulla mia musica, ed è forse l’unico aspetto positivo che riesco a riconoscere nel mio comportamento.
Quest’anno hai pubblicato ben 2 Ep, MOONRISE con Spacecraft e SIBERIA con Astropilot, ed un album NUIT ENSEMBLE, tutti per l’etichetta Valley View Records. Come si sono sviluppati questi lavori e queste collaborazioni?
L’anno prima, nel 2021, avevo pubblicato un intero disco in collaborazione col musicista danese Lauge. Tra musicisti ambient capita spesso di collaborare, e la label australiana Valley View Records, ha creato un collettivo incredibile. C’è tantissimo talento, voglia di creare musica e condividerla con tutto il mondo. In questo bellissimo clima sono nate anche le collaborazioni del 2022 con Spacecraft, che abita in India, e Astropilot che vive in Russia. Il mondo per noi non ha barriere ne confini, viviamo nella musica che è da sempre un linguaggio di pace universale. Il mio disco Nuit Ensemble è stato pubblicato ad Ottobre di quest’anno, sempre dalla Valley View Records, ed è andato benissimo soprattutto in Australia dove è arrivato addirittura quarto nella classifica di musica elettronica. Al suo interno ci sono diverse collaborazioni con Lauge, Spacecraft e Matt Tondut Il disco è stato scritto nei primi sei mesi del 2022, principalmente con la chitarra ed i tape loops su cassetta e ruota attorno al brano Nuit, pubblicato in anteprima nella compilation Sleep Cycle II a Marzo, che in realtà chiude anche la tracklist.
Vorrei che ci parlassi un po’ del progetto LACANAS, in cui si intrecciano la musica tradizionale sarda e l’ambient… come avviene tutto ciò? Pensi che la ciclicità che caratterizza le musiche tradizionali possa essere messa in relazione a quella dell’ambient o di certa musica contemporanea?
Il concetto semplice che sta alla base delprogetto musicale Làcanas è quello di “fermare il tempo” e creare un omaggio originale e sentito alla Sardegna. Gli ingredienti principali sono due: la musica tradizionale sarda e la sperimentazione della musica ambient con influenze che vanno da Fennesz fino ai Disintegration Loops di Basinski. Nel corso degli anni molti artisti e musicisti contemporanei si sono cimentati in rielaborazioni della musica Folk sarda in chiave moderna. Nessuno però ha immaginato la musica sarda attraverso i tempi dilatati, onirici e densi di echi dell’ambient. Il ragionamento musicale che ha portato a questo remix parte dalla realtà storica della musica folk sarda per superarla e arrivare nei territori immaginari e visionari tipici della musica ambient. La scena di partenza è quella di una tipica festa di paese in cui gli abitanti vestiti in abiti tradizionali ballano “su ballu sardu” accompagnati dall’organetto e dalle launeddas. Ho provato a perdermi in quei passi antichi, a pensarli sempre più lenti, sempre più irreali, sempre più sognanti, fino a sovrapporsi, confondersi tra loro e fermarsi in un istante che diventa eterno. Ho immaginato quella musica di festa che rallenta fino a fermarsi in una singola nota e si immerge negli echi e nei riverberi del tempo. Questa è l’idea di base del progetto Làcanas. La rielaborazione viene ottenuta rallentando la musica tradizionale sarda oltre il 400% e filtrandola attraverso distorsioni ed effetti di echo e delay secondo la lezione di Fennesz, una delle mie principali fonti di ispirazione. Il resto dell’arrangiamento è costituito da soundscapes ottenuti con la chitarra elettrica con influenze di Basinski e Brian Eno. I brani sono registrati rigorosamente su nastro, tramite un registratore multitraccia a cassetta, sono mixati dal vivo e filtrati nuovamente da una diversa catena di effetti in luoghi panoramici della Sardegna.
https://perryfrank.bandcamp.com/track/nuit
Quale disco o autore/autrice continua a ispirare la tua pratica?
I musicisti che mi ispirano sono tantissimi e cerco di carpire, filtrare e rielaborare tutti gli aspetti di ogni musicista che ascolto e che reputo interessante per la mia musica.
Principalmente la mia più importante fonte di ispirazione è e rimane Brian Eno, ma se dovessi fare una lista, ai primi posti di sicuro metterei Vangelis, Fennesz, Basinski ed Erik Satie.
A cosa stai lavorando ora e quali nuovi progetti prevedi per il futuro?
Sto lavorando a diversi nuovi EP collaborativi ed un nuovo album che vedranno la luce nel 2023. Cerco a modo mio, cioè lentamente, di osservare questo mondo velocissimo che produce canzoni usa e getta e di pubblicare musica sempre autentica e sognante che in qualche modo parli di me anche senza parole.
ORTICA #3 – DIANA LOLA POSANI
Studiosa della voce e performer, facilitatrice di Deep Listening e curatrice indipendente, Diana Lola Posani è la fondatrice di AKRIDA, un festival nomade di sound art che ha visto la sua prima edizione a Milano lo scorso anno con artiste come Merlin Nova, Clara de Asís, Janneke Van Der Putten e Rie Nakajima e che oggi si prepara verso nuove tappe.
AKRIDA è un festival corporeo che si basa su un assunto essenziale: il suono è la modificazione dello spazio esperito con il corpo e dà spazio ad artiste che hanno un rapporto molto stretto con l’organico, il materico, con le texture dei loro strumenti come quelle della voce.
Mettere al centro individualità libere di autodefinirsi con la propria corporeità e le proprie pratiche, con una visione acuta e personale, è parte del lavoro di Posani, la cui poetica spazia in un vasto orizzonte di indagine filosofica e sensoriale attraverso il gesto e la sperimentazione vocale.
Come nasce il festival Akrida e quali sono le tue guidelines come direttrice artistica?
Il festival Akrida nasce da uno spazio che sentivo andava riempito. Crescendo ho avuto modo di seguire la programmazione di alcuni spazi che presentavano proposte legate alla sperimentazione performativa e musicale, qui a Milano. Mi ricordo però la sensazione di essere fuori posto, in un mondo chiuso dove tutti si conoscevano e ti squadravano per capire se eri all’altezza, se facevi parte del contesto.
Mi sono immaginata un festival che fosse casa, dove chiunque poteva assistere e sentirsi a suo agio, scoprendo qualcosa di nuovo, magari cose che normalmente non avrebbe mai ascoltato. Nell’arte il concetto di Alterità rispetto ad una norma, dovrebbe semplicemente non esistere, o perlomeno ridursi rispetto alla realtà quotidiana. Le guidelines si sono definite quasi a posteriori: arrivando da un background più artistico che
organizzativo mi sono approcciata alla programmazione con un atteggiamento compositivo, dove a guidare era molto più l’intuito, o l’armonia tra elementi, rispetto che il concetto.
Per certi versi il mio modo di operare è molto semplice, si muove attorno alla domanda: chi deve essere sentito?
A chi devo affidare lo spazio per far sentire la propria voce? A quel punto i contorni si tracciano in modo naturale.
La sound art è un territorio ibrido che unisce aspetti musicali, arti performative, talvolta la testualità, le arti digitali così come istanze totalmente acustiche e che si sviluppano in relazione allo spazio fisico.
Cosa ti ha portato dentro i confini ampi di questo campo di ricerca?
La sound art per me è un contenitore, un’etichetta vaga e forse un po’ fumosa ma che mi dà la libertà di muovermi tra le discipline che ho avuto modo di praticare nel corso degli anni, senza perdere troppo tempo nel rispettare una coerenza. Non saprei nemmeno rintracciare il momento in cui ho sentito parlare di questo concetto per la prima volta. Facendo ricerca in ambito musicale e contemporaneamente in ambito performativo rimanevo molto colpita da persone che sembravano aver creato una lingua propria, e spesso mi capitava di leggere la definizione “sound artist”. L’associazione sound art e libertà si è creata subito. Per certi versi penso di non aver mai scoperto la sound art come genere o come scena, ma di essermi resa conto che quello che stavo facendo (e quello che sognavo di fare) poteva essere definito con questa espressione. La mia attenzione al suono ha fatto si che facessi sound art quando frequentavo la scuola di cinema, quando studiavo pratiche performative, quando scrivevo. L’importante è sempre stato far sì che il suono rimanesse il punto di partenza e il punto d’arrivo. Negli anni sto cercando di trovare un mio modo per accogliere la fluidità, nel pensiero, e nell’espressione artistica, e questo termine che significa tutto e nulla mi aiuta ad andare incontro
alla molteplicità che fa parte della mia natura.
Sei anche facilitatrice di Deep Listening, in cosa consiste questa pratica e come si articola il tuo lavoro vocale in sinergia con le pratiche di ascolto profondo?
Il deep listening è un metodo ideato dalla compositrice americana Pauline Oliveros, composto da un insieme di pratiche che conducono il praticante dall’azione di sentire a quella di ascoltare. Con sentire si intende un’azione involontaria gestita dalle nostre orecchie, che sono perennemente in stato ricettivo, mentre l’elaborazione dei suoni è un’azione legata al sistema nervoso, ed è molto più ricca e complessa. Ascoltare è un’arte, non è affatto automatico, è una capacità che va sviluppata. Pauline Oliveros ha elaborato scores ed esercizi per stimolare la consapevolezza del paesaggio sonoro esterno e interno a noi (i suoni del nostro corpo, dei nostri pensieri, dei nostri sogni). Esplorare questo tipo di approccio è stato uno sviluppo organico del lavoro di ricerca che già stavo facendo con la voce attraverso la Funzionalità Vocale, un metodo per la voce incentrato sull’ascolto propriocettivo del corpo e del suono nello spazio. Per anni non ho fatto altro che cantare suoni e ascoltarne la brillantezza, il colore vocalico, il movimento delle frequenze nello spazio.
Il piacere dell’emissione è completamente bilanciato dal piacere della ricezione, sia del proprio suono che di quello degli altri. Questa pratica di canto orientata alla percezione dello spettro armonico si basa su un
principio che si chiama circuito audio-fonatorio, teorizzato da Alfred Tomatis, otorinolaringoiatra e ricercatore francese. Il nome audio-fonatorio è abbastanza esplicativo di per sé, parla della connessione
tra laringe e orecchio. Secondo Tomatis infatti la voce di una persona contiene solo le frequenze che l’orecchio è in grado di ascoltare. Ciò che non sentiamo non possiamo riprodurlo. Questo conduce ad implicazioni molto interessanti, tra cui la più semplice è: per imparare a cantare bisogna imparare ad ascoltare.
Qual è stata l’esperienza sonora e/o performativa che ha avuto più impatto su di te?
Non credo che ci sia stata un’esperienza più segnante rispetto alle altre, ho avuto il privilegio di poter vedere e sentire tante cose che sono state significative per la mia crescita artistica. In alcune esperienze ho avuto la fortuna di intuire una qualità non ordinaria, o forse una risonanza rispetto a qualcosa di mio che non era ancora venuto alla luce.
Mi viene in mente la performance della compagnia Dewey Dell Deriva Traversa, il lavoro della cantante Merlin Nova, o alcune voci sentite al buio in camera mia, come alcuni radiodrammi sperimentali o la musica di Jean Marie Massou. Tutti frammenti di un mistero da decifrare. Molte delle esperienze sonore sono capitate in momenti di vita quotidiana: campane stonate in lontananza mentre la corrente disegna geometrie inaspettate sull’acqua, una vecchia signora che canta mentre scende delle scale di pietra… ma non ne tengo un archivio mentale. Lascio che si dissolvano nel mio inconscio, o dovunque abbiano deciso di abitare dentro di me, sono certa che la sparizione sia solo apparente. Spero anzi, che sia un segnale di assorbimento, e che quando creo un po’ di quella meraviglia si riversi nelle mie scelte formali.
Il tuo lavoro come curatrice indipendente unisce il suono al discorso teorico e in particolare ad istanze femministe e post-coloniali. Pensi che questi due mondi possano alimentarsi a vicenda e quali sono le pratiche che secondo te favoriscono questo dialogo?
Ho avuto modo di esplorare questa connessione durante la Listening Academy, una piattaforma di scambio tra ricercatori di diverse discipline, tutti accumunati dall’interesse trasversale per l’ascolto profondo.
Questo scambio era moderato dai sound artists Brandon LaBelle, Buddharaya Chattoparyay e Carla J. Maier.
È stata un’esperienza molto intensa di immersione in quello che LaBelle definisce “sonic agency” ovvero una forma di attivismo che considera il suono come un mezzo di resistenza.
In quell’occasione ho avuto modo di conoscere i mille modi con cui il suono può essere fonte di cambiamento: il ruolo della lingua nel contrasto ai totalitarismi attraverso la radio, il field recording in rapporto al cambiamento climatico, l’ascolto come metodologia di de-colonizzazione del pensiero, e tantissime altre prospettive.
Nell’antologia Sounding the margins Pauline Oliveros dice:
“I recognized that being heard is a step towards being understood. Being understood is a step towards being healed”
Tutti questi temi, transfemminismo, decolonizzazione, sono accumunati da un bisogno di empatia consapevole, un’empatia che da disposizione istintiva e indifferenziata diventa una qualità del pensiero.
È interessante perché si tratta del corpo che struttura la mente, essendo questa un’ apertura in primo luogo corporea.
Insegnare l’empatia è difficile, soprattutto se non la si vuole normativizzare, e credo che il punto di partenza possa essere il corpo.
Su cosa si fonda l’idea di rete che istituisci tra le musiciste / le identità per cui hai pensato Akrida?
L’idea di rete si fonda sull’idea di offrire sollievo.
C’è una grande fatica prima di tutto umana, nell’affrontare tanti aspetti del fare musica.
Negli anni mi è capitato di conoscere musiciste incredibili, tutte stanche e deluse dall’affrontare l’atto creativo (che è intrinsecamente un atto coraggioso) come delle solitarie combattenti.
Ho trovato grande disagio soprattutto tra le autrici della propria musica, che cercavano di sostenere nel modo migliore possibile, che per le donne spesso coincide col modo più silenzioso e discreto, il peso dell’esporsi creativamente e far sentire la propria voce, in un sistema che non ti premia ma al contrario spesso ti umilia.
La rete è essenziale per capire che nessuna di noi è sola, che molte domande e paure non sono questioni individuali ma collettive perché generate da errori sistemici.
Una volta stabiliti legami profondi, non importa più che la tua collega abiti in un’altra città, o un altro Stato. Siamo insieme.
Sono anche interessata all’idea di unire persone con un metodo di lavoro affine, un metodo di lavoro che è profondamente intessuto nello stile di vita. Ciascuna di queste artiste ha creato una sua ritualità, una modalità unica di vivere una vita a contatto con la sacralità del suono.
L’arte diventa così una delle Vie, insieme a tutto il resto: quando alzarsi e coricarsi, l’alimentazione, l’amore, le letture… Abbiamo imparato tanto l’una dall’altra e al tempo stesso è stata un’occasione di celebrazione della propria unicità.
Qual è il futuro di Akrida?
AKRIDA ha avuto il ruolo fondamentale di farmi inquadrare con più precisione alcuni temi che poi sono stati assorbiti da qualsiasi mia attività, artistica o curatoriale. Per certi versi ha avuto una carica germinativa che non si è più spenta, e che ritrovo in collaborazioni artistiche innestate sulla sorellanza e sulla dignità del sentimento.
A livello più pratico, mi sono ripromessa che la prossima edizione sarebbe nata da un incontro, con uno spazio, un collettivo, qualche alterità che si riconosca in questo progetto e che lo sostenga entrando a far parte del processo di cura Fino a quel momento mi auguro di essere una buona guardiana dell’anima del festival. Altri formati stanno prendendo forma: un’etichetta, proposte laboratoriali
Chi ha apprezzato quell’esperienza avrà presto nuove modalità per godere della forza e della bellezza rivoluzionaria dei margini.
ORTICA #2 – JOËLLE LEANDRE
Pensate come sarebbe iniziare a fare qualcosa senza nessun esempio.
Difficile vero? Come aprire una nuova rotta o scalare una montagna.
A volte è proprio vedendo qualcuno come noi che pensiamo “ma allora si può fare!
Anch’io potrei provare a farlo, quello spazio è anche per me”.
Quando Joëlle Leandre arriva a Parigi, nel ’79, si rende conto che lei e un’altra
ragazza sono le uniche due contrabbassiste di tutta la Francia. Lungi dall’essere
superato il problema culturale alla base di questo fenomeno, sicuramente per noi è
un po’ più facile, perché un grande modello ce lo abbiamo: lei.
Un’intervista urticante sulla natura collettiva della musica e dell’improvvisazione,
lontana dalla gerarchia e dall’obbedienza, un invito ad ascoltare il quotidiano e a
combattere. Una chiacchierata di fuoco con una “deep political woman”, come lei
stessa si definisce, in occasione del workshop tenuto quest’estate presso la Casa
della Musica San Michele.
All’inizio dell’estate hai tenuto un workshop qui in Italia, alla Casa della Musica San
Michele. Come si è svolto e cosa ti interessa maggiormente comunicare? Chi speri
di incontrare nei tuoi workshop?
JL: Tengo workshop da trentacinque anni, sai…in America, Canada, in Giappone e in
Italia ricordo di averne già fatti. Diversi Paesi, persone, musicisti che vogliono suonare
insieme. La musica è collettiva. Ci piace suonare in solo ma, prima di tutto, è qualcosa di
collettivo e… spero che loro vogliano capire come improvvisare… e cioè semplicemente
arrivare con il proprio strumento, con le proprie capacità e suonare con un altro musicista,
senza indicazioni, senza stile, senza parole intellettuali molto chic, senza idioma. Solo
“suoni quello che suoni”, e questo è il mio lavoro, spingerli ad ascoltare, capire come
costruire. È come una composizione. E per me questi incontri e queste improvvisazioni
sono musica da camera… duo, trio, a volte quartetto, ascoltare molto profondamente i tuoi
amici intorno, questo è tutto. In questo caso eravamo tra i 13 e i 14 musicisti, di tutti gli
strumenti: 3 o 4 chitarre elettriche, 2 flauti, voce, violoncello… dipende chi viene… e il mio
lavoro è provocarli!
Quando improvvisi, è la tua musica, non hai un leggio e degli spartiti. Devi esprimere, è
una creazione pura. Anche se fai un errore… va bene, sai? La vita non è perfetta. È bello
sbagliare, fare della cacca. L’improvvisazione è la vita, improvvisiamo ogni giorno, fino a
quando andiamo a dormire. La composizione è: una persona decide tutto, sa tutto e tu
devi stare zitta e seguirla. L’improvvisazione è collettiva ed è una musica creativa, è molto
fragile, forte e fragile, e possiamo imparare a costruire parlando di forma, organizzazione,
memoria… sono esattamente gli stessi ingredienti della composizione, ovviamente, ma è
MUSICA COLLETTIVA! Non c’è solo una persona a cui tutti dobbiamo obbedire e con cui
dobbiamo tacere. No. Siamo improvvisatori, esecutori e compositori. È una trilogia.
Vengono dei giovani musicisti ed è molto divertente, molto intenso, e spero che gli
piaccia… impariamo insieme, un po’… è una pura invenzione di te stesso, così tu cresci,
noi cresciamo. Non sono un insegnante, sono più una “passeuse”, una provocatrice. Do a
chi partecipa un “coup de pied au cul”: SII TU! FALLO!
Mi ci sono voluti forse 50 anni per essere me stessa… quindi posso dare questo “coup de
pied au cul” a loro.
Ho condiviso musiche così diverse…ho 71 anni, ho iniziato con il contrabbasso a 9 anni,
usando una sedia… ero troppo piccola, una bambina con questo enorme strumento
vuoto… il contrabbasso è totalmente vuoto… e tu devi entrarci dentro. Non potete
immaginare quanto questo strumento sia impegnativo. Ho iniziato dalla classica…
(ovviamente a 9 anni non si ascoltano Charles Mingus, Charlie Haden o Dave Holland,
tutti questi bassisti del jazz)… e non ho mai smesso. Ho suonato la classica, ho suonato
anche molta musica nuova, sono stata bassista in diversi ensemble da camera in
Francia… e ho viaggiato molto, sono totalmente una zingara, sono una nomade pura,
credo profondamente in questo: il NOMADISMO, sicuramente… perché impariamo
dall’altro. A volte pensiamo di sapere… ma non sappiamo nulla. Piano piano andiamo
verso l’altro e cambiamo, questa è la vita, questo è quello che ho capito. Non solo con i
musicisti, perché io lavoro con danzatori, con pittori, con le opere teatrali… ma bisogna
essere aperti, avere la mente aperta, essere liberi… ma la libertà è difficile! È un lungo e
lento lavoro essere liberi e accettare molte cose, e accettare anche se stessi.
Ho parlato di molte cose in questo workshop, non solo di musica, abbiamo parlato di
filosofia, di jazz, di persone di colore, di compositori bianchi … di molte cose. Le persone
vengono in questo workshop come se fosse un giardino e scelgono quello che vogliono,
nessuno chiede loro chi sono, da dove vengono o i loro studi, mai. Semplicemente,
suonano. A volte è bello, a volte no. È la vita, è la vita quotidiana… questa musica è la vita
quotidiana, potrei dire. Alcuni giorni sei così meraviglioso, solo due ore dopo è pura cacca
… OH LALA CHE MERDA ! Gli esseri umani sono così complicati… è per questo che
molte persone come gli intellettuali o i compositori dicono di “sapere”. Con semplicità si
può dire di sapere solo un po’, perché la vita è complicata e gli esseri umani… siamo
complicati! Mi spaventano molto le persone che dicono “Sì, ora lo so”… Oh mio Dio, io
dico “Siediti. Spiegami cosa sai!”. È un processo molto lungo, ma la vita è fantastica e devi
solo essere aperto e innamorato, in un certo senso… non è come adorare l’ “Ave Maria” e
tutto il resto, è solo l’essere PRONTO, tutto può accadere… e nell’improvvisazione, tutto
può accadere. Perché quando si fa una gig (nel jazz “concerto” si dice “gig”), spesso non
si conosce l’altro musicista. Io vengo dal free jazz, è la mia scuola da quando avevo 17
anni.
Mi interessa molto sapere come hai conosciuto il FIG (Feminist Improvising Group)
e qualcosa su Le Diaboliques, il trio che hai fondato con IrèneSchweizer e Maggie
Nicols…
JL: Ho ascoltato il FIG (Feminist Improvising Group) a Parigi ed era fantastico, nel ’78, ’79,
vedere una band di donne, perché no? Erano SOLO, SOLO uomini. Mai avrebbero potuto
immaginare! EHI, LE DONNE ESISTONO, LE DONNE SONO CREATIVE, LE DONNE
HANNO IDEE, capisci? POSSONO SUONARE CON NOI! No. No. È solo cambiato un po’
adesso, negli ultimi dieci anni, 15 anni… vedo un po’ di più quello che sta succedendo in
Francia, finalmente le donne suonano il trombone, la tromba o la batteria… il pianoforte
ovviamente, è abbastanza classico suonare il pianoforte o la voce…
Les Diaboliques è un gruppo molto vecchio. Ho conosciuto Irène e Maggie perché
ascoltavo il FIG e sono andata da loro. Perché non suonare insieme? E suoniamo da più
di 30 anni. Dobbiamo lottare, io ho lottato per tutta la vita in un certo senso… come
bassista sono arrivata a Parigi nel ’79, eravamo solo due donne, non solo a Parigi… in
Francia! Quindi ho dovuto suonare ed esercitarmi molto, come una bestia, come una
“stupida” o come una “donna meravigliosa”. Devi essere forte di fronte a questi tizi, ma ho
imparato da loro! Sai, io sono una bassista e non ho esempi nella storia, NESSUN
ESEMPIO! Loro hanno esempi, gli uomini hanno esempi, hanno Beethoven, Elvis Presley
o chi altro, noi non abbiamo niente. Dobbiamo cercare la maniera di lavorare
intensamente e io ho lavorato probabilmente 4 volte di quanto avrebbe fatto un uomo. E
dopo anni e anni si sono zittiti… “Oh… Ah… è brava… MERDA… è brava! OH MERDA …
OH MERDA, non è poi così male!”. E tu devi essere 4 volte più brava di loro. In questo
caso si inizia a essere libere. Non sono radicale, non voglio suonare solo con le donne,
ma loro devono cambiare. Noi siamo venute da loro e ora loro devono venire da noi, per
dire “Ehi, vieni nel mio trio!”. Mi svegliavo ogni mattina con rabbia… Lavoro ancora per
l’utopia, per cambiare il mondo, gli artisti devono farlo, è il nostro lavoro. Altrimenti diventi
un artista istituzionale. Io non sono istituzionale, sono una ribelle. Questo tipo di rabbia è
politica, sono una donna profondamente politica, naturalmente… con una forte coscienza
di ciò che accade, non solo nel mio Paese, in giro… nelle arti, in molti ambiti…
Quali sono state le collaborazioni più importanti per lei?
JL: Non puoi immaginare quanti musicisti ho incontrato e così differenti, quindi è molto
difficile scegliere. Posso parlare di Irène Schweizer, o di Derek Bailey, che considero un
padre spirituale… oppure posso citare Cage… l’ho incontrato quando avevo 15 anni.
Quando incontri altri musicisti ricevi molto e poi, quando torni a casa, il tuo compito è
quello di pulire e selezionare. La vita è una selezione, selezioniamo ogni giorno… il nostro
cibo, i nostri vestiti… non è intellettuale quello di cui parlo, è come il processo della
respirazione. Non si può amare tutto e tutti, è impossibile… questa selezione è
“molecolare” e inconscia… è come l’improvvisazione… e quando si suona con un altro
musicista, come un trombone, per esempio, si diventa un po’ l’altro e si comincia a vedere
il mondo da una prospettiva completamente diversa.
Siamo felici, si rischia, certo, è rischioso, ma la vita senza rischio può essere così noiosa…
Il processo è lungo, la scuola è la vita di tutti i giorni, siamo spugne, tutto può essere,
diventare la tua musica, guardare fuori, ascoltare la vita! Impariamo ogni giorno… ma è
lungo!
Passione e pazienza, questo
è il lavoro!
Imagine what it would be like to start doing something without any examples.
Difficult isn’t it? Like opening a new route or climbing a mountain.
Sometimes it is just by seeing someone like us that we think “but then it can be
done! I could try to do it too, that space is for me too.”
When Joëlle Leandre arrived in Paris in ’79, she realized that she and another girl
were the only two double bass players in all of France. Far from overcoming the
cultural problem underlying this phenomenon, it is certainly a little easier for us,
since we have a great example: her.
A stinging interview about the collective nature of music and improvisation, far from
hierarchy and obedience, an invitation to listen to the everyday and engage in
struggle. A chat of fire with a “deep political woman,” as she calls herself, on the
occasion of the workshop held this summer at Casa della Musica San Michele.
At the beginning of the summer you held a workshop here in Italy at Casa
dellaMusica San Michele. How did it take place and what are you most interested to
communicate? Who do you hope to meet in workshops?
JL: I give workshop since 35 years, you know… in America, in Canada, in Japan, in Italy
already, I remember. Different countries, people, musicians that want to play together.
Music is collective. We like to play solo but, first, it’s collective and… I hope, they want to
understand how to improvise…just arrive with your instrument, with your tools and to play
with another musician, without indications, without style, without very chic intellectual
words, without the idiomatic. Just “you play what you play”, and this is my job, to push
them to listen, to understand how to build.
It’s like a composition. And for me these meetings and these improvisations are chamber
music… duo, trio, sometimes quartet, really deeply listening to your friends around, that’s
all. In that case there were about 13-14 musicians, any instruments: 3 or 4 electric guitars,
2 flutes, voice, a cello, a violin… It depends who comes… and my work is to provoke
them!
You know, when you improvise, it’s your music, you don’t have a music stand and scores.
You have to express, it’s a pure creation. Even if you make an error…but it’s good, you
know? Life is not perfect. It’s good to be wrong, to make CACA. Improvisation is life, we
improvise every day, until we go to sleep. Composition is: one person decide everything,
knows everything and you have to shut up and follow him or her. Improvisation is collective
and it’s a creative music, it’s very fragile, strong and fragile and we can learn how to build
talking about form, organization, memory… they are exactly the same ingredients of
composition, of course, but it’s COLLECTIVE MUSIC! It’s not just a person where we have
to shut up and just OBEY. No. We are improvisers, performers and composers. It’s a
trilogy. Young musicians comes and it’s a lot of fun, very intense, and I hope they like it…
we learn together, a little bit… it’s a pure invention of yourself so you grow, we grow. I’m
not a teacher, I’m a “passeuse”, a provoker. I give a “coup de pied au cul”: BE YOU! DO
IT! It took me maybe 50 years to be me… so I can give this “coup de pied au cul” to them.
I shared so different music, I’m 71 years old, I started with bass at 9 years old, using a
chair… I was too little, a little girl with this huge empty instrument… double bass is totally
empty… and you have to go INTO. You cannot imagine how much this instrument is
demanding. I started from classical… of course when you are 9 years old you didn’t listen
to Charles Mingus, Charlie Haden or Dave Holland, all these bass player in jazz.. and I
never stopped. I played classical, I played a lot of new music also, I was a bass player in
different chamber ensemble in France… and I travel a lot, I’m totally a gipsy, I’m a pure
nomad, I believe deeply on this: NOMADISM, definitely… because we learn from the other
one. We think sometimes that we know…but we know nothing. Slowly we go to the other
one and we change, this is the life, this is what I’ve understood. Not only with musicians,
because I work with dancers, painters, I work in theater pieces… but you need to be open,
open mind, to be free…but freedom is difficult! It’s a long work to slowly be free and accept
a lot of things and accept even yourself. I spoke about lot of thing in this workshop, it’s not
only music, we talk about philosophy, we talk about jazz, we talk about black people, white
composers, we talk about lot of things. People comes in this workshop like in a garden and
they pick what they want, nobody asked them who they are, where they come from or their
studies, never. Just, play. Sometimes is good, sometimes no. It’s life, it’s daily life… this
music is daily life I could say. Some days you are so wonderful, just two hours after it’s a
pure CACA … OH LALA CHE MERDA ! Humans beings are so complicate… that’s why
many people like intellectual or composer they say “they know”. With simplicity you can
say you know just a little bit, ‘cause life is complicated and human beings… we are
complicated! I’m pretty afraid about people who say “Yes, now I know”… Oh my god, I say
“Sit down. Explain me what you know!”. It’s a very long process, but life it’s fantastic and
you just need to be open mind and in love, in a way…not like “Ave Maria” and all that, it’s
just to be READY, everything can happen… and in improvisation, everything can happen.
Because when you have a gig” (in jazz we say “gig”), often you don’t know the other
musician. I come from free jazz, this is my school since I was 17 years old.
I’m really interested about how you meet FIG (Feminist Improvising Group) and
about Le Diaboliques, the trio that you founded with IrèneSchweizer and Maggie
Nicols…
JL:I listened to FIG (Feminist Improvising Group) in Paris and it was fantastic, in ’78, ’79
to see a woman band, why not? They were ONLYYY, ONLYY man. Never they could
imagine! HEY, WOMEN EXIST, WOMEN ARE CREATIVE, WOMEN HAVE IDEAS, you
know? THEY CAN PLAY WITH US! No. No. Just changed a little bit now, last ten years,
15 years… I little more I can see what is happening in France, finally women playing
trombone, trumpet or drums… piano of course, it’s quite classical to play piano or voice…
Les Diaboliques it’s a very old band. I met Irène and Maggie because I listened the FIG
and I went to them. Why not to play? And we play from more than 30 years now.
We have to fight, I fought all my life in a way… as a bass player arriving in Paris in ’79, we
were just 2 woman, not only in Paris… in France! So I had to play and to practice a lot, like
a beast, like a stupid or a wonderful woman. You have to be strong in front to these guys,
but I learnt from them! You know, I’m a bass player I don’t have examples in the history,
NO EXAMPLES! They have examples, men have examples, they have Beethoven, Elvis
Presley or who else, we have nothing. We have to find where to work intensely and I
worked probably 4 times more than men. And after years and years they shut up…
“Oh…Ah…she is good… MERDA CACA… she is good! OH MERDA OH MERDA, She is
not so bad!” And you have to be good 4 times more than them. In this case you start to be
free. I’m not radical, I don’t want to play just with women, but they have to change. We
came to them and now they have to come to us, to say “Hey, come to my trio!”. I woke up
every morning with rage…I still work for utopia, to change the world, artists need to do it,
it’s our job. If not, you become an institutional artist, I am not institutional, I’m a rebel. This
kind of rage is political, I’m a deep political woman, of course… with a strong
consciousness about what happen, not only in my country, around…about arts, about lot
of things…
Which collaborations were the most important for you?
JL:You cannot imagine how many and so different musicians I met, so it’s very difficult to
choose between them. I can speak about IrèneSchweizer, or Derek Bailey, that I consider
as a spiritual father… or I can mention Cage…I met him when I was 15 years old. When
you meet other musicians you receive a lot and then, when you go home, your job is to
clean and to select. Life is a selection, we select everyday… our food, our clothes… it’s
not intellectual what I’m talking about, it’s the process of breathe. You cannot love
everything and anybody, it’s impossible… this selection it’s “molecular” and
unconscious…it’s like improvisation… and when you play with another musician, like a
trombone, for example, you become a little bit the other and you start to see the world from
a completely different perspective.
We are happy, you take a risk of course, it’s risky, but life without risk could be so boring..
The process is long, the school is the day life, we are sponge, everything can be, become
your music, look outside, listen the life! We learn every day… but its long!
Passion and Patience, that
Is the work!!
ORTICA #1. Caramelle al sapore di morte, il suono nel cinema di Fassbinder nel libro di Maria Mirani
È appena uscito e si intitola Rainer Werner Fassbinder. Una luce dal di dentro ed è uno dei “fotogrammi”
dell’interessante collana che la casa editrice Bietti (Milano) ha dedicato al rapporto tra suono e cinema.
È un libro acutissimo che si configura come analisi profonda della drammaturgia sonora dei film di Fassbinder e della
vera funzione del suono che Mirani paragona a quella della luce nelle cattedrali gotiche, a quel glimmer in grado di
creare l’architettura stessa con una struggente diafanità. Oltre a questo, immergendoci nelle pagine, avvertiamo un’altra
pulsione, di cui la ringraziamo forse ancor di più: riportare Fassbinder sotto i riflettori, come lei stessa afferma, in nome
dell’ ars amandi da lui desiderata, e cioè in nome della “liberazione di nuove soggettività, di nuove forme di corporeità e
di nuove pratiche sessuali”.
Musicista, cantautrice del gruppo Viadellironia e chitarrista, ricercatrice, autrice tridimensionale che riesce a tenere
insieme i riferimenti più pertinenti e tecnici dell’indagine musicologica con il pop, in una visione trasversale, aperta e
generosa, Maria Mirani, con questo libro ci ha fatto un vero regalo.
Per parlare della tecnica di sovrapposizione utilizzata da Fassbinder, ha coniato l’espressione “overloaded soundtrack”.
E noi vi consigliamo di leggere questa intervista aprendo più finestre di Youtube e mettendo qualche brano a vostra
scelta tra Kraftwerk, Each man kills the thing he loves cantata da Jeanne Moreau, musiche grottesche e cabarettistiche
varie, Mahler, o qualcuna delle vostre sequenze must del nostro amato Rainer Werner, scomparso trentasettenne nel
giugno di quarant’anni fa.
Dai, dicci, qual è la sequenza suono-immagine che più ti ha impressionata dei film di Fassbinder? Intendo quella magica che ti ha fatto sviluppare una riflessione profonda sulla drammaturgia musicale dei suoi film…
Credo che la più iconica, nella sua brevità, sia la sequenza che inserisce Radio-Activity dei Kraftwerk. Fassbinder sfodera questo brano in più pellicole, del resto. Faccio in questo caso riferimento a Roulette Cinese (46esimo minuto). In questa sequenza sospesa, anti-narrativa (come spesso accade in Fassbinder), l’elettronica corrotta e presaga dei Kraftwerk si comporta come una protesi semantica, e quasi come una protesi morale, della bambina poliomielitica che insidia il sistema chiuso e ipocrita di questa famiglia borghese tedesca. La bambina (che vuole attentare al suo stesso nucleo famigliare) viene incaricata dalla musica di scortare significato mortifero e sovversivo, esprimibile solo con il più anti-logico dei mezzi artistici, la musica. E per questo l’adozione del medium musicale non è decorativa, accessoria: perché solo la sua natura a-logica può autenticamente consegnarci ad un profondo senso di morte.
Come scrivi nel tuo Fotogramma, Goebbels definì Lili Marlen al suo esordio radiofonico come “una caramella al sapore di morte”, pensi che potremmo utilizzare questa definizione per parlare di tutta la filmografia di Fassbinder? Che cos’è per te, in termini musicali, una “caramella al sapore di morte”?
Bellissima domanda! Nella popular music, e in particolare in alcune strutture tradizionali quali il refrain, o il cosiddetto special, risiede un potenziale nostalgico elevatissimo. Questo in virtù del fatto che i materiali del pop sono come già sedimentati in noi, come una canzone delle più conosciute. Mi accade spesso di stranirmi all’ascolto di canzoni estremamente pop, che apparecchiano melodie semplici e così perfette da esemplare quella famosa idea michelangiolesca delle forme nascoste nel marmo grezzo. Nella popular music esiste una sorta di prescienza della fine. Una potenza plastica cristallina nella sua immediatezza, e insieme nostalgica. Proust (mi pare ne I Guermantes) sostiene che il ritornello ha sempre la malinconia di qualcosa che ricade nel passato. Pensiamo alle ballads, e a quel limpido utilizzo di stilemi tradizionali, assolutamente tonali, cristallini nella loro intelligibilità e immediatezza. Eppure, spesso, così tristi da devastarci il cuore, come dice Adorno per la musica di Mahler, che spessissimo affastella melodie popolari accanto a momenti di tensione sperimentale. Prendiamo ad esempio una canzone come Do You Realize, dei Flaming Lips. È una delle mie canzoni preferite di sempre. La sua identità armonica è di una semplicità sconcertante, la sua immediatezza traslucida e tristissima, come una caramella al gusto di morte. O, per dirla ancora con Adorno, con “un’allegria da condannato a morte”. O ancora, pensiamo ad Across the Universe, che consiste della stessa accecante, maggiore e tristissima solarità. In definitiva sì, penso che “caramella al sapore di morte” sia una perfetta definizione del suo cinema.
Vorrei che spiegassi in cosa consiste la tecnica dell’overloaded soundtrack, tu la metti in relazione allo straniamento brechtiano…
“Overloaded soundtrack” è una formula che ho coniato riferendomi ad una funzione musicale che troviamo spesso nei film di Fassbinder. Ci troviamo davanti ad un sovraffolamento di materiali musicali, spesso provenienti da universi differenti (musica aulica, musica pop, voci radiofoniche o televisive, voci fuori campo o voci intradiegetiche), che collaborano alla creazione di una simultaneità, di una polifonia di eventi sonori. Sono convinta il regista volesse distaccare, con questa tecnica,lo spettatore dalla credulità verso la narrazione, verso la storia. In generale, voleva smentire l’autoevidenza della narrazione attraverso questo sistema, per disinnescare l’autoevidenza del reale stesso, delle sue leggi che troppo spesso ci sembrano neutre. Come Brecht mediante lo straniamento, Fassbinder cerca di stornarci dalla credulità verso il reale attraverso l’applicazione dell’overloaded soundtrack, che non ci consente mai di lasciarci completamente immergere nella narrazione.
I personaggi di Fassbinder vivono le leggi sociali come opprimenti rispetto alla propria natura e molto spesso quello che sperimentano è la rovina. Come spieghi, Peer Raben, il compositore che lavorava con Fassbinder, spesso assegnava a ogni personaggio un atteggiamento musicale, come avveniva più nel dettaglio questo lavoro di costruzione formale?
In questa funzione musicale, che consiste nel connotare i caratteri dei personaggi mediante atteggiamenti musicali particolari, troviamo moltissima storia. Sia nel contesto della storia della musica (pensiamo alle modalità del pittorico in musica -Liszt, Berlioz, Mussorgsky), sia nel contesto della letteratura (pensiamo, ancora, alla piccola frase della sonata di Vinteuil in Proust). Anche Peer Raben e Fassbinder assegnano delle responsabilità di caratterizzazione molto specifiche e puntuali agli eventi sonori. Pensiamo al caso di Mieze, nel Berlin Alexanderplatz. La dolce ragazza è una delle pochissime riserve di felicità capitate al povero Franz Biberkopf. Il ruolo di Mieze è consolarlo, dargli delle forme di speranza per il futuro. La musica accordata a questa caratterizzazione, allora, è sempre confortevolmente adagiata nel regno della tonalità: un regno melodico, arioso, sinfonico e consolante. Un mondo che ci fa stare a nostro agio. E proprio questa è la posizione di Mieze nel cosmo disperato di Franz: accoglierlo sempre, e consolarlo. Prendendo ad esempio, ancora, il caso di Radio-Activity in Roulette Cinese, possiamo intercettare una gestalt completamente antitetica. Il pezzo dei Kraftwerk è greve, mortifero, dissoluto, puntato, velenoso. Come il personaggio (attentatore del sistema) a cui viene allegato: Angela, la bambina.
Trovo molto interessante il parallelismo che fai nel finale, del tutto personale, tra la funzione del suono nei film di Fassbinder e la luce nell’architettura gotica, cosa che poi giustifica anche il sottotitolo del libro, “Una luce dal di dentro”… qual è il legame che istituisci?
Ho scelto di imperniare parte dell’analisi musicale su un parallelismo architettonico perché confido nell’eloquenza transmediale della storia dell’arte. È un metodo pericoloso, perché si corre il rischio di gettare delle corrispondenze di segni tra arti differenti aporetiche e capziose. Ho cercato, quindi, di utilizzare un sistema fatto di evocazioni e di riverberi gestaltici, più che di ponti linguistici. La cattedrale, del resto, è un feticcio ricorrente della letteratura occidentale, così come un luogo mentale della storia del cinema. Pensiamo al gotico di Proust, di Hugo, e alla cattedrale in El di Bunuel o alle sequenze ecfrastiche di F for Fake di Orson Welles. Credo che possa esserci utile per rischiarare alcuni segni ricorrenti negli edifici filmici di Fassbinder: una spiccata tendenza al linearismo, alla composizione grafica, talvolta quasi piranesiana; un’evidente gestalt verticalizzante, spiritualizzante, flamboyant. In ultimo, ho riscontrato nell’atteggiamento luministico diafano (consistente in un costante effetto di gibigiana, di glimmer) che alloggia in tanti film del regista tedesco (Berlin Alexanderplatz, Querelle, Lola), una messa in scena della bellezza inconcussa e insieme deteriorata della luce che riempie le cattedrali gotiche. Una luce spiritualizzante, che vorrebbe tendere alla sublimazione di un corpo che non smette mai di risultare disgustoso nel sottrarsi ai bisogni dello spirito (frase di Fassbinder), ma che finisce sempre per schiantarsi su un fondo di immonda organicità. La musica stessa lavora in questi termini, erodendo (con improvvisi scarti atonali o cabarettistici) iperuranie situazioni melodiche sospese, ariose e tonali. Credo Fassbinder amasse tanto la musica di Mahler anche per questo simile trattamento dei materiali musicali, sempre in un dialettico ed interno dissidio reciproco. Un senso ammalato, organico, nascosto da una diafana luce.
Fassbinder è ancora molto amato, quell’ estetica è ancora contemporanea, tu la attraversi nel libro sotto la lente di altri sguardi come quello di Nietzsche, Brecht, Berg… mi sento di dire che potremmo tranquillamente accostare anche Sade all’universo da te tracciato, tra l’altro protagonista di Sade Valentino, brano che hai da poco pubblicato come cantante di VIADELLIRONIA. Cosa ti affascina o cosa pensi sia ancora in grado di parlare alla contemporaneità all’interno di questo orizzonte di riferimenti?
Fassbinder era un assiduo frequentatore dei circuiti dell’underground kinky e sadomaso. Era interessato a tutte quelle pratiche che imponessero uno scarto, un clinamen, alle consuetudini sessuali e ai comportamentali tradizionali, perché era convinto che l’amore fosse il più efficace dei sistemi di repressione sociale. L’attualità di questo modello di pensiero è straordinaria. I legami affettivi funzionano ancora, molto spesso, secondo criteri costrittivi, e sono molto felice di appartenere ad una comunità (quella LGBTQIA+) che sta lavorando nella direzione di una dissoluzione di questo sistema solare irrigidito, e nella costruzione attiva di un’ars amandi molto simile a quella desiderata da Fassbinder. Anche per questo spero che il suo cinema (e il suo pensiero), possano essere analizzati sotto la lente contemporanea della liberazione di nuove soggettività, di nuove forme di corporeità e di nuove pratiche sessuali.
ORTICA
Ortica è uno spazio dedicato a pratiche urticanti, suoni infestanti, conversazioni su nuove uscite, nuove cosmogonie, comunicazioni interspecifiche, mostri, stregoneria e interdisciplinarietà, science-fiction e sabotaggi elettronici.
Un’intervista mensile per svelare il vigoroso e strisciante rizoma di figure del panorama contemporaneo urticanti quando benefiche al nostro sistema immunitario.
Intervista a cura di Giulia Deval.
Giulia Deval è una cantante e sound artist italiana. Il suo lavoro si articola in formati diversi come live set, creazione di abiti sonori, concerti di personaggi immaginari e azioni partecipative per voci e nastri magnetici.
Dal 2018 è parte di Rica Rickson, un network femminista internazionale creatosi durante il progetto europeo ITERATIONS tenutosi tra Hangar.org (Barcelona), Dyne.org (Giampilieri), esc medien kunst labor (Graz), Constant (Bruxelles).