Sono passate alcune settimane dalla prima tappa del festival Musica Sanae, il festival di indagine sonora dedicato alla medicina che da maggio a novembre 2019 attraversa Napoli, Berlino e la Polonia.

Una riflessione che coniuga le pratiche artistiche con la medicina non può non comprendere una riflessione sul concetto di cura e, di conseguenza, sulle pratiche curatoriali. Questo forse il punto di partenza di Phonurgia che il 3 maggio ha invitato Erik Bünger al Maschio Angioino per una produzione originale: Aglossostomography.

Erik Bünger è un artista, scrittore e compositore la cui ricerca si concentra principalmente sul linguaggio in una riflessione che parte da un approccio semiotico per indagare ciò che è dentro e ciò che è fuori di ciò che convenzionalmente intendiamo come “linguaggio”.

In performance lectures, video, testi e composizioni musicali, esplora come tali concetti, riferendosi a qualcosa di muto e indicibile al di là delle parole, diventano vuoti centrali attorno ai quali si costruisce la nostra realtà.

Dare una definizione di linguaggio? Qualsiasi risposta fallirebbe, ma cerchiamo comunque di fargli qualche domanda al riguardo.

ML:. Aglossostomography. Come è stato concepito questo progetto in relazione al tema proposto da Musica Sanae?

EB:Aglossostomography significa “descrizione di una lingua senza lingua”. La parola fu coniata nel Seicento da un chirurgo francese che incontrò un ragazzo la cui lingua era marcita. Nonostante l’assenza della lingua, il ragazzo era in grado di parlare perfettamente e di articolare perfettamente ogni suono nella sua lingua madre. Questo fenomeno – il fatto che non c’è davvero bisogno della lingua fisica per esercitare la lingua parlata – è stato ripetutamente confermato da allora.

Ora, dato che Musica Sanae si concentra sull’intersezione tra suono e medicina, ho pensato che fosse il momento perfetto per indagare il fenomeno di una lingua senza lingua. Per usarlo come trampolino di lancio per pensare alla più ampia domanda sul rapporto tra corpo e linguaggio e su come la lingua è spesso concepita come un passaggio tra i due. Molte lingue non fanno distinzione tra lingua e lingua. In italiano la parola “lingua” significa sia la lingua che si parla che la lingua con cui si parla, e questo vale per il francese, il russo, il turco, l’urdu, il finlandese e molte altre lingue nel mondo. Anche la parola inglese “lingua” è una progenie della parola latina “lingua” che significa “lingua”. Lo stesso vale naturalmente anche per la “linguistica”. Forse questo doppio significato esprime il desiderio di fissare la lingua ad un particolare punto di origine nel mondo. Il desiderio che la lingua funga da punto d’incontro tra corpo e lingua; un luogo dove la carne e la parola devono sempre toccare perché sorga un discorso articolato. C’è una teoria che propone che la lingua sia nata dai recettori del gusto all’interno della lingua fisica. Secondo questa teoria la lingua è stata usata per la prima volta per discernere tra cibo dolce e amaro, maturo e marcio, commestibile e non commestibile e queste discriminazioni primordiali ad un certo punto si sono articolate come parole dallo stesso organo che per primo le ha sentite. Da queste prime articolazioni si sarebbe poi ampliato il vocabolario e a poco a poco si sarebbero formate tutte le distinzioni che compongono la totalità del linguaggio umano; distinzioni come quella tra cotto e crudo, cultura e natura, umano e animale e così via via. Quindi, secondo tale teoria, c’è una strada diritta che porta dal gusto alla lingua e questa strada attraversa la lingua fisica. Alla fine una tale teoria non ha alcun valore scientifico e non spiega assolutamente nulla. Perché ancora non dà conto di come l’umanità si muove dall’uno all’altro – dalla sensazione all’articolazione. Ma è comunque interessante per il desiderio che esprime. Ripercorrendo gli inizi del linguaggio fino a un luogo preciso nel corpo umano si cerca di creare una solida base per il linguaggio.

Ma la lingua funziona solo perché le parole sono arbitrarie – l’unica ragione per cui la parola inglese “sour” descrive un particolare spasmo nelle terminazioni nervose, è perché la tradizione vuole che sia così. Non c’è altro terreno. Penso che il desiderio di fissare la lingua nella carne fisica sia un modo per rinnegare questa infondatezza; per cercare di stabilire la lingua come un ponte che fa incontrare la lingua e la sensazione corporea. Ecco perché l’aglossostomografia – la possibilità di parlare senza lingua – diventa così traumatica; taglia la connessione tra corpo e linguaggio e li fa apparire del tutto indipendenti l’uno dall’altro.

L’opera, commissionata da Musica Sanae, è una conferenza performativa in cui indago questo fenomeno dell’aglossostomografia. Durante la performance sono in piedi accanto a uno schermo di proiezione su cui le parole appaiono e scompaiono continuamente. In questo modo sono in grado di attuare fisicamente la separazione tra il mio corpo e le parole sullo schermo, tra la mia lingua fisica e la lingua madre, che, trasferita su un supporto esterno, è stata tagliata via dal mio corpo.

ML: Come ti avvicini al linguaggio nel tuo lavoro di artista/performer e qual è l’aspetto più interessante per te?

EB: La lingua è un argomento che è assolutamente centrale per il mio lavoro. Sia in termini di contenuto che in termini di medium, dato che sto usando la mia voce per parlare continuamente durante tutto il mio lavoro. Tuttavia, le mie lezioni non si concentrano direttamente sulla lingua, ma piuttosto su aree di esperienza che si presume si trovino al di fuori della lingua. Aree come il corpo, la voce, l’animale, l’immagine, la natura e così via. Se tali aree appartengono all’esterno del linguaggio, sono comunque completamente essenziali per il funzionamento del linguaggio. Prendiamo ad esempio la voce umana. La voce è spesso considerata non linguistica. Noi usiamo la voce per parlare, ma la voce stessa è esattamente ciò che rimane una volta che la lingua è stata rimossa. La parola “voce” è il modo in cui la lingua dà un nome al di fuori di essa. Così la voce umana è sia all’interno che all’esterno della lingua simultaneamente. La stessa cosa vale per l'”animale”. La nostra cultura spinge l’animale verso l’esterno della lingua pensando all’animale come l’essere vivente, in movimento che non parla. Eppure l’animale è del tutto essenziale per definire il linguaggio. Perché il linguaggio è definito come quella stessa abilità che separa l’uomo e l’animale. Una cosa diversa ma correlata accade nel rapporto tra linguaggio e immagine. C’è un detto che dice “un’immagine vale più di mille parole”. Quello che questo detto sembra proporre è che le immagini sono una forma superiore di linguaggio. Ma il detto sembra proporre contemporaneamente che, a causa di questa stessa superiorità, le immagini non sono linguaggio. Questa questione del rapporto contraddittorio tra l’interno e l’esterno della lingua, tra la lingua e il mondo, è qualcosa su cui torno continuamente nel mio lavoro. Anche se il mio lavoro si basa molto sulla filosofia, non parlo qui come filosofo. Non sto cercando di costruire un sistema che funzioni, sto cercando di rompere l’idea stessa di un sistema funzionante. Dimostrare che il linguaggio non ha mai funzionato; quando lo si spinge al limite, il linguaggio si rivela sempre totalmente contraddittorio.

ML: Come costruisci le tue lezioni performance lectures e come organizzi i materiali che raccogli?

EB: Dietro ogni lavoro di questo tipo c’è un lungo processo di ricerca. Di solito ho bisogno di un anno e mezzo per costruire ogni pezzo. Un sacco di lavoro consiste nella lettura. Anche se alla fine non riesco a leggere tutto questo perché sono un lettore lento. Ma leggo con estrema attenzione per cercare di raccogliere idee e contraddizioni all’interno del testo che sono meno evidenti, che sono passate inosservate all’autore. È un processo molto intuitivo. Un testo mi condurrà ad altri testi e lentamente costruisco una raccolta di idee che questi testi hanno innescato in me. Tengo una biblioteca meticolosamente organizzata nel mio computer in modo da poter tornare facilmente a un’idea specifica. La difficoltà sta nel fatto che non so mai dove finirà il pezzo. Perché non voglio mai fare un pezzo su qualcosa che già conosco. Vedo ogni lavoro come un’opportunità per me di indagare su qualcosa che non sono ancora riuscito a comprendere e questo mi porta spesso in territori che mi confondono molto. 

ML: Qualcosa nelle tue riflessioni mi ricorda Imaginary Ethnographies, è un libro molto interessante di Gabriele Schwab che si concentra sulla letteratura come mezzo dinamico che “scrive cultura”. C’è qualcosa di etnografico nel tuo lavoro?

EB: In opere come The Girl Who Never Was o The Elephant Who Was a Rhinoceros tocco l’etnografia. Il rapporto tra etnografia tradizionale e culture aliene funziona molto spesso in un modo che è analogo al rapporto tra la lingua e l’esterno della lingua, di cui ho parlato prima. La cultura aliena diventa un modo per la cultura occidentale di definire il proprio esterno. Lo straniero è quindi assolutamente parte integrante del modo in cui la cultura occidentale si comprende. Così l’alieno è estraneo alla cultura occidentale e tuttavia funziona al centro di quella stessa cultura. Penso che si possa capire molto bene come funzionano le diverse forme di esclusione politica studiando le strutture di base del rapporto tra lingua e mondo. Come ogni forma di esclusione si basa su una contraddizione, una contraddizione che è ogni volta diversa e che funziona in modo simile.

Aglossostomography – Interview to Erik Bünger

A few weeks have passed since the first stage of the Musica Sanae festival, the sound investigation festival dedicated to medicine that from May to November 2019 passes through Naples, Berlin and Poland.

A reflection that combines artistic practices with medicine cannot but include a reflection on the concept of care and, as a result, on curatorial practices. This was perhaps the starting point of the Phonurgia that on May the 3rd invited Erik Bünger to the Maschio Angioino for an original production: Aglossostomography.

Erik Bünger is an artist, writer and composer whose research focuses mainly on language in a reflection that starts from a semiotic approach to investigate what is inside and what is outside of what we conventionally understand as language.

In performance lectures, videos, texts and musical compositions, he explores how such concepts, by referring to something mute and un­speakable beyond words, be­come central voids around which our reality is built up.

To give a definition of language? Any answer would fail, but we still try to ask him some questions about it.

ML: Aglossostomography. How was this project conceived in relation to the theme proposed by Musica Sanae?

EB: Aglossostomography means “description of a tongue without a tongue”. The word was coined by French surgeon in the seventeenth century, who encountered a boy, whose tongue had rotted away. Despite the fact that the tongue was missing, the boy was able to speak perfectly well and flawlessly articulate every sound in his mother tongue. This phenomenon – the fact that you don’t really need the physical tongue to exercise the spoken tongue – has been confirmed again and again since then.

Now, since Musica Sanae focuses on the intersection between sound and medicine, I thought it was a perfect moment to investigate this phenomenon of a tongue without a tongue. To use it as a springboard for thinking about the wider question about the relationship between the body and language and how the tongue is often conceived as a passage between the two. Many languages make no distinction between tongue and language. In Italian the word “lingua” means both the tongue you speak and the tongue with which you speak, and this is true for French, Russian, Turkish, Urdu, Finnish and many other languages around the world. Even the English word “language” is an offspring of the Latin word ‘lingua’ meaning ‘tongue’. And the same is of course true for “linguistics”. Perhaps this double meaning expresses a desire to fix language to one particular point of origin in the world. A desire for the tongue to function as a meeting point between body and language; a place where flesh and word must always touch for articulate speech to arise. There is a theory that proposes that language was born out of the taste receptors inside the physical tongue. That the tongue was first used to discriminate between food that is sweet and bitter, ripe and rotten, edible and inedible, and that these primordial discriminations at some point became articulated as words by the same organ that first felt them. From these first articulations one could then extend the vocabulary and bit by bit start to articulate all the other discriminations that make up the totality of human language; discriminations such as cooked and raw, culture and nature, human and animal and on and on and on. So, according to such a theory there is a straight road leading from taste to language and this road traverses the human tongue. In the end such a theory has no scientific value and explains absolutely nothing. For it still gives no account for how humanity moves from one to the other – from sensation to articulation. But it is interesting anyway because of the desire it expresses. By tracing the beginnings of language back to a definite place in the human body one attempts to create a firm foundation for language.

But language only functions because words are arbitrary – the only reason why the English word ‘sour’ describes a particular spasm in your nerve endings, is because tradition dictates that it should be so. There is no other ground. I think that the wish to fix language in the physical flesh is a way to disavow this groundlessness; to try to establish the tongue as a bridge that makes language and bodily sensation come together. That is why aglossostomography – the possibility to speak without a tongue – becomes so traumatic; it cuts the connection between body and language and makes them appear as entirely independent of each other.

The work, commissioned by Musica Sanae is a lecture performance in which I investigate this phenomenon of aglossostomography. During the performance I am standing next to a projection screen on which words continuously appear and disappear. In this way I am able to physically enact the separation between my own body and the words on the screen, between my own physical tongue and the mother tongue, which by being transferred to an exterior medium, has been cut away from my body.

ML: How do you approach language in your work as artist/performer and what is the more interesting aspect for you?

EB: Language is a topic that is absolutely central to my work. Both in terms of content and in terms of medium, since I am using my voice to speak continuously throughout my work. However, my lecture performances do not focus directly on language, but rather on areas of experience that are assumed to lie outside of language. Areas such as body, voice, animal, picture, nature and so on. If such areas belong to the outside of language they are nevertheless completely essential for how language works. Take the human voice, for example. The voice is often considered as non-linguistic. We use the voice to speak but the voice itself is precisely what remains once language has been stripped away. The word ‘voice’ is how language names its own outside. So the human voice is both inside and outside language simultaneously. The same thing is true for the ‘animal’. Our culture pushes the animal to the outside of language by thinking of the animal as the living, moving being that doesn’t speak. And yet the animal is entirely essential to how we define language. For language is defined as that very ability that separates human and animal. A different but related thing happens in the relationship between language and image. There is a saying that says ‘a picture is worth more than a thousand words’. What this saying seems to propose is that pictures are a superior form of language. But the saying simultaneously seems to propose that, because of this very superiority, pictures are not language. This question of the contradictory relationship between the inside and the outside of language, between language and the world, is something I return to again and again in my work. Even though my work relies very heavily on philosophy, I am not speaking here as a philosopher. I am not trying to build a system that works, I am trying to break down the very idea of a working system. To show that language was never working  in the first place; when you push it to its limits language always reveals itself to be totally contradictory.

ML: How do you shape your performance lectures and how do you organize materials you collect?

EB: Behind every such work there is a very long process of research. Usually I need one and a half year to construct every piece. A lot of work consists in reading. Though in the end I don’t manage to read all that much since I am a slow reader. But I read extremely carefully to try to pick up ideas and contradictions within the text that are less obvious, that went unnoticed by the author. It is a very intuitive process. One text will lead me to further texts and slowly I build up a collection of ideas that these texts have triggered in

me. I keep a meticulously organised library in my computer so that I easily can return to a specific idea. The difficulty lies in the fact that I never know where the piece is gonna end. Because I never want to do a piece about something I already know. I see every work as chance for me to investigate something I haven’t yet been able to comprehend and this often takes me to territories that are very confusing for myself.

ML: Something in your reflections remind me Imaginary Ethnographies, it’s a very interesting book by Gabriele Schwab that focuses on literature as a dynamic medium that “writes culture”. Is there something ethnographical in your work?

EB: In works such as The Girl Who Never Was or The Elephant Who Was a Rhinoceros I touch upon ethnography. The relationship between traditional ethnography and alien cultures very often functions in a way that is analog to the relationship between language and the outside of language, that I spoke of earlier. The alien culture becomes a way for Western culture to define its own outside. The alien is therefore absolutely integral to how Western culture understands itself. So the alien is alien to Western culture and yet functions at the heart of that very same culture. I think that one can get a lot of insight into how different forms of political exclusion function by studying very basic structures in the relationship between language and the world. How every form of exclusion is based on a contradiction; a contradiction that is different every time and yet functions in a way that is similar.

Con il supporto della Fondazione Morra, dell’associazione E-M Arts e con il Patrocinio dell’Assessorato ai Giovani e dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Napoli ritorna La Digestion, proliferante e brulicante festival napoletano dedicato alla “musica ascoltata raramente” che in un gioco a matrioska quest’anno presenta Musica Sanae.

Si tratta di un nuovo progetto di collaborazione artistica tra tre realtà europee legate dalla passione per la ricerca e l’arte sonora: Phonurgia di Napoli, In Situ di Sokolowsko (Polonia) e NK di Berlino. La sinergia tra le tre associazioni ha dato vita a un festival innovativo che si svolgerà nelle tre città tra Maggio e Novembre 2019.

L’idea del festival è quella di esplorare il legame tra musica e medicina attraverso la commissione di opere sonore, installazioni e lavori di ricerca ad hoc, affidati ad artisti e ricercatori tra i più rappresentativi della scena internazionale contemporanea.

Il legame tra musica e medicina è uno dei temi meno affrontati dall’arte sonora contemporanea, sebbene uno dei più affascinanti. È obiettivo del progetto fare nuova luce sulla variegata storia di questo rapporto e sulle sue contraddizioni, attraverso la presentazione di lavori innovativi con esecuzioni dal vivo e lezioni, conferenze, composizioni acusmatiche, installazioni sonore e multimediali, documenti d’archivio, in luoghi significativi quali ex-ospedali, sanatori, musei tematici e luoghi d’interesse storico. Non poteva mancare all’appello uno dei più significativi compositori  e pianisti che negli ultimi anni ha fatto della componente allucinatoria del suono uno dei punti cardine della sua ricerca: Anthony Pateras, invitato per una produzione originale. PSEUDACUSIS, audio hallucinations for electro-acoustic septet, questo il titolo scelto da Pateras, è una composizione per un insolito ensemble che sarà presentata il 3 maggio al Maschio Angioino alle ore 20.

«La scelta di Anthony Pateras per la composizione di un pezzo per ensemble è stata quasi immediata, data la stima e l’amicizia che ci lega ormai da anni. L’idea era quella di comporre un ensemble con musicisti delle tre città protagoniste di Musica Sanae, ovvero Napoli, Berlino e Sokolowsko. I musicisti che abbiamo scelto sono dunque Chiara Mallozzi, Riccardo La Foresta, Mike Majkowski, Lucio Capece, Gerard Lebik e Tiziana Bertoncini. Si tratta di un ensemble da camera molto particolare, che vede accanto a violoncello (Mallozzi), violino (Bertoncini) e contrabbasso (Majkowski), anche due fiati (Capece, Lebik) e percussioni (La Foresta)» rivela Phonurgia.

Abbiamo chiesto qualcosa anche ad Anthony Pateras…

Pseudacusis. Che tipo di fenomeno è?  Come si relaziona con il processo di questa nuova creazione?

Anthony Pateras: Pseudacusis è un termine medico che significa allucinazione o illusione uditiva. Questo pezzo è interamente incentrato sulla creazione di illusioni uditive con le risorse che ho a portata di mano.

Musica Sanae si concentra sul rapporto tra musica e medicina, che in qualche modo tocca sempre il tuo lavoro, soprattutto in relazione a questo tuo interesse per l’allucinazione…Questo pezzo tratta tutti i tipi di sintomi relativi ad un ampio spettro di illusioni uditive. L’ho ristretto ai seguenti quattro, con le mie risposte musicali tra parentesi:

I) Pareidolia uditiva – la percezione di pattern in modo casuale laddove tecnicamente non ne esiste nessuno (spazializzazione randomizzata, algoritmi di pitch in evoluzione, orchestrazione modulata timbricamente).

II) Sindrome della testa che esplode – in cui una persona sperimenta rumori irreali quando si addormenta o si sveglia (effetto stocastico, dinamica estrema).

III) Emissioni otoacustiche – suoni che vengono generati dall’orecchio interno (eterodinamiche, ripetizioni poliritmiche, ambienti di altoparlanti).

IV) Psicoacustica – la percezione del suono e dei suoi effetti fisiologici (interferenze elettroacustiche, frequenze di battuta, tempi diversi dei toni risultanti).

Contrabbasso, violoncello, violino, sax tenore, clarinetto basso e percussioni, questo ensemble è molto particolare. Qual è stata la tua reazione quando il festival ti ha parlato di questa commissione?

È una sfida, e mi dà un problema da risolvere che non avrei altrimenti scelto. Questo è il lavoro del compositore a volte.

Come è avvenuto il percorso di costruzione del pezzo con i musicisti e come intendi interagire con loro?

Ho realizzato il nastro in Australia registrando musicisti che suonano gli stessi strumenti del settetto (Judith Hamman: violoncello, Jonathan Heilbron: basso, Scott McConnachie: sassofono, Aviva Endean: clarinetto basso, Maria Moles: percussioni, Erkki Veltheim: violino). Ho elaborato i suoni in una parte di nastro a 6 canali, che poi orchestrerò con l’ensemble in Europa. Dal vivo, ogni membro dell’ensemble sarà in mezzo agli altoparlanti, io mixerò e innescherò l’elettronica dal centro della stanza.

 


With the support of Fondazione Morra, E-M Arts association and with the patronage of the Department of Youth and the Department of Culture of the City of Naples, La Digestion is back. The proliferating and bustling Neapolitan festival dedicated to “music listened to rarely” presents Musica Sanae, a new project of artistic collaboration between three European realities linked by a passion for research and sound art: Phonurgia of Naples, In Situ of Sokolowsko (Poland) and NK of Berlin. The synergy between the three associations has given rise to an innovative festival that will take place in the three cities between May and November 2019.

The idea of the festival is to explore the link between music and medicine through the commissioning of sound works, installations and ad hoc research works, entrusted to artists and researchers among the most representative of the contemporary international scene.

The link between music and medicine is one of the least addressed themes of contemporary sound art, although one of the most fascinating. The aim of the project is to shed new light on the varied history of this relationship and its contradictions, through the presentation of innovative works with live performances and lectures, conferences, acousmatic compositions, sound and multimedia installations, archive documents, in significant places such as former hospitals, sanatoriums, thematic museums and places of historical interest. One of the most significant composers and pianists who in recent years has made the hallucinatory component of sound one of the key points of his research could not miss the call: Anthony Pateras, invited for an original production. PSEUDACUSIS, audio hallucinations for electro-acoustic septet, this is the title chosen by Pateras, is a composition for an unusual ensemble that will be presented on May 3 at Maschio Angioino at 8 pm.

«The choice of Anthony Pateras for the composition of a piece for ensemble is a consequence of the esteem and friendship that has bound us for years. The idea was to compose an ensemble with musicians from the three cities of Musica Sanae: Naples, Berlin and Sokolowsko. The musicians we chose are Chiara Mallozzi, Riccardo La Foresta, Mike Majkowski, Lucio Capece, Gerard Lebik and Tiziana Bertoncini. It is a very particular chamber ensemble, which sees not only cello (Mallozzi), violin (Bertoncini) and double bass (Majkowski), but also two winds (Capece, Lebik) and percussion (La Foresta)» reveals Phonurgia.

We also asked Anthony Pateras something…

Pseudacusis. What kind of phenomenon is it?  How does it relate to the process of this new creation?

Anthony Pateras: Pseudacusis it’s a medical term form auditory hallucination or illusion. This piece is all about creating auditory illusions with the resources at hand.

Musica Sanae focuses on the relationship between music and medicine, which is in some way always touches your work, especially with respect to this interest you have in hallucination…

This piece deals with all kinds of symptoms relating to a wide spectrum of auditory illusions. I narrowed it down to the following 4, with my musical responses in brackets:

I) Auditory Pareidolia – the perception of patterns in randomness where none technically exist (randomized spatialization, evolving pitch algorithms, timbrally modulated orchestration)

II) Exploding Head Syndrome – in which a person experiences unreal noises when falling asleep or waking up (stochastics, extreme dynamics)

III) Otoacoustic Emissions – sounds that are generated from the inner ear (heterodyning, polyrhythmic repetitions, speaker environments)

IV) Psychoacoustics – the perception of sound and its physiological effects (electro-acoustic interference, beating frequencies, different tempi of resultant tones)

 

Double bass, cello, violin, tenor tax, bass clarinet and percussions, this is a very particular ensemble. What was your reaction when the festival told you about this commission?

It’s challenging, and it gives me a problem to solve I wouldn’t have otherwise chosen. That’s the composer’s job sometimes.

How did the path of construction of the piece with the musicians happen and how will you interact live with them?

I have been making the tape part in Australia by recording musicians who play the same instruments here (Judith Hamman: cello, Jonathan Heilbron: bass, Scott McConnachie: saxophone, Aviva Endean: bass clarinet, Maria Moles: percussion, Erkki Veltheim: violin). I processed the sounds into a 6-channel tape part, which I will then orchestrate with the ensemble in Europe. Live, each ensemble member will be in between the speakers, I will mix and trigger and electronics from the center of the room.

| Autore: Michele Palozzo |

Già nella sua fase originaria, a metà degli anni sessanta, il collettivo AMM presentava alcuni tratti tipici di una congrega settaria: i compositori/esecutori riuniti sotto tale acronimo (mai disvelato con esattezza) non soltanto stabilirono di andare in scena o in studio senza provare alcunché, ma prima e dopo ciascuna sessione non lasciarono spazio a commenti costruttivi od opinioni personali sulla riuscita o meno della performance.
Così, sulla scorta della scuola newyorchese di John Cage e del movimento Fluxus, la compagine britannica faceva piazza pulita dei concetti di giusto o sbagliato nell’arte, ripudiando l’accademismo e abbracciando risolutamente la più completa istintività. La spinta rivoluzionaria del pioniere Cornelius Cardew fu, in questo senso, assolutamente determinante: la sfida all’egemonia capitalista che costituì il suo inscalfibile credo ideologico e politico non poteva che manifestarsi anche nella sua intensa attività musicale, almeno fino ai primi anni settanta, quando giunse a riconsiderare la sua stessa idea di musica libera, secondo lui divenuta elitaria anziché accessibile a tutti.

I primi esiti di AMM furono fragorosi, quasi Futuristi nella loro irruenza sovversiva: ancor più che nel visionario esordio “AMMMusic” (1966), nel proto-noise dell’incisione live “The Crypt”, datata al 1968 ma edita soltanto nel 1981 dall’etichetta Matchless di Eddie Prévost, percussionista e unico membro inamovibile del collettivo. Eppure, qualora non se ne fossero seguiti gli sviluppi nei decenni seguenti, oggi sarebbe impossibile riconoscere l’impronta di quegli stessi musicisti nelle sonorità che ancora rappresentano: un’espressione vieppiù “muta”, in sempre maggior rapporto con il silenzio anziché coi suoni, non più veicolati in forma alterata ed esplicita sino alla cacofonia, ma “attesi” con infinita pazienza, quasi estratti a fatica dagli interstizi, apparentemente plasmati da un nulla ancestrale.

Per molto tempo, tra gli anni ottanta e i primi Duemila, il nucleo stabile di AMM ha contato soltanto tre componenti: Eddie Prévost, Keith Rowe e John Tilbury. Come vedremo, sarà un disaccordo interno tra i primi due a far sì che nel 2004 Rowe abbandoni la formazione, troncando un sodalizio musicale durato quasi quarant’anni. “Norwich”, registrato dal vivo ed edito nel 2005, sarà la prima pubblicazione a quattro mani della sigla, di cui Prévost e Tilbury rimarranno i soli accoliti permanenti nella decade seguente.
In prossimità di questa delicata fase di transizione era già entrata in scena una figura chiave, a posteriori davvero fondamentale per gli sviluppi futuri dei progetti legati ai membri storici: l’americano Jon Abbey, fondatore e direttore artistico di Erstwhile Records, dedito non soltanto alla produzione di dischi ma anche all’ideazione stessa di varie situazioni improvvisative che in seguito avrebbero trovato posto nel suo singolare catalogo.

Grazie al suo mirato spirito d’iniziativa e alla collaborazione di Massimo Simonini, allora direttore festival AngelicA di Bologna, il 20 maggio 2001 ebbe luogo la performance intitolata “The Hands of Caravaggio”, che vide uniti sul palco l’orchestra elettronica MIMEO (Music In Movement Electronic Orchestra) e John Tilbury, in quello che Brian Olewnick ha poi definito “il primo grande concerto per pianoforte del ventunesimo secolo”. [1] Un evento che, nonostante il memorabile e acclamato esito finale, sin dalle prove di gruppo non partì sotto i migliori auspici. Di fronte al palco già allestito con le strumentazioni analogiche e digitali dell’ensemble, Tilbury dichiarò: “In un secondo potrete eliminarmi per sempre”; al che lo sperimentatore francese Jérôme Noetinger controbatté sarcasticamente: “In meno di un secondo”. Si tratta soltanto del preludio a un’annosa controversia che avrebbe avuto ripercussioni a lungo protrattesi tra i membri storici di AMM.

La successiva testimonianza di Olewnick, che prese parte al concerto ed ebbe un malaugurato scambio d’opinioni con Rowe, indusse Tilbury a credere che la sua performance fosse stata “sabotata” da Cor Fuhler, presumibilmente su indicazione dello stesso Rowe, che lo avrebbe istruito affinché intervenisse sulle corde del pianoforte qualora Tilbury fosse caduto negli “automatismi” dell’interpretazione feldmaniana – sequenze di note e intervalli che contraddistinguono anche il suo operato con AMM.
Sul mensile Wire il critico John Cratchley scrisse che “essere soggetto a una manipolazione sonora istantanea dev’essere stata, per Tilbury, un’esperienza fisicamente disorientante e prossima allo stupro intellettuale”. Anche Eddie Prévost prese da subito le parti del compagno pianista, attaccando l’arrogante iniziativa di Rowe, portando a un’ulteriore e decisiva frattura nel collettivo, già da tempo segnato da sensibili divergenze ideologiche.


Duos For Doris, Erstwhile Records, 2003

Nonostante i dissidi annidati tra i membri della formazione, la forte iniziativa curatoriale di Jon Abbey lo portò a immaginare diverse possibili combinazioni tra questi e numerosi altri protagonisti dell’avanguardia e dell’improvvisazione elettroacustica internazionale: una sorta di gotha personale che, a conti fatti, ha realmente imposto Erstwhile come una delle etichette di riferimento per alcune tra le espressioni sonore più audaci del nuovo millennio. Così il fautore racconta la travagliata genesi del primo duo firmato Rowe/Tilbury:

Ero intenzionato a creare una sotto-serie dedicata a gruppi con l’aggiunta di un collaboratore particolarmente importante, da [i numeri di catalogo] 021-024. Ne ho realizzati tre (021-023) e lo 024 avrebbe dovuto essere AMM con Christian Wolff oppure con Evan Parker. Se ne discuteva durante un tour di AMM nel Nord-est degli Stati Uniti (circa 2002) e ho preso parte a più concerti che potessi per provare a fissare l’idea che avevo in mente per Erstwhile. Li ho visti suonare a Baltimora, in una classe a Dartmouth con Wolff, a Bard, e poi in quattro set a New York. Dopo i primi due era chiaro che se anche quei concerti si fossero verificati, sarebbero stati pubblicati da Matchless, non Erstwhile. “Ok, pazienza, ci ho provato…”

Nel tempo ci furono parecchie discussioni e disaccordi a riguardo, prima e forse durante il tour. L’esibizione a Bard era la successiva, e a metà del set ho pensato: “Se Eddie non consentirà aggiunte alla formazione, perché non sottrarre?”. Così dopo il concerto, quando Keith e John erano da soli, ho detto loro: “Ho un’altra idea”. E qui viene la parte più bella, perché sulla scorta di tutto quello che avevamo passato per mesi in seguito alla mia ultima idea legata ad AMM, la reazione immediata di Keith è stata di sporgersi verso di me e, scherzando solo a metà, mi ha coperto la bocca.

Questa incisione [“Duos For Doris”], forse più di ogni altra, è un miracolo che sia successa: per essa ho dovuto recarmi in Europa due volte, prima a Londra per ottenere il permesso di Eddie (ci sono riuscito) e poi a Nancy per le registrazioni. Non pensavo che la seconda fosse essenziale – volevo soltanto essere presente – ma a causa delle tristi circostanze credo che John avrebbe probabilmente annullato se Brian [Olewnick] e io non fossimo stati già in Francia.
[2]

Completa il quadro il racconto del summenzionato Olewnick, biografo di Rowe e ulteriore fonte primaria riguardo le vicende di quegli anni:

La session, predisposta da Jon Abbey per verificarsi a Nancy e implicante non poche difficoltà di natura logistica e personale, fu improvvisamente a rischio di non accadere del tutto a causa della grave malattia della madre di Tilbury. Un giorno di incertezza trascorse a casa di Rowe a Vallet, dopo la quale Tilbury telefonò dall’Inghilterra per riferire che sì, sua madre era venuta a mancare, ma che ci saremmo comunque incontrati a Parigi per poi spostarci a Nancy, un giorno più tardi del previsto. Il risultato è una registrazione che rimane all’apice della musica per il qui presente ascoltatore. [3]

Nonostante tutto, quindi, il 7 gennaio del 2003 Rowe e Tilbury si incontrano presso il CCAM (Centre Culturel André Malraux) di Vandœuvre-lès-Nancy per una sola giornata di registrazione – invece delle due inizialmente programmate –, equipaggiati con i loro strumenti d’ordinanza: un pianoforte e una chitarra elettrica con qualche effetto elettronico. “Hanno creato cinque pezzi lungo il corso di circa tre ore di esecuzione, tre dei quali sono stati scelti per questo doppio cd. Tilbury ha fatto riscaldamento suonando un po’ di Chopin, un po’ di Schoenberg e alcune canzoni popolari inglesi.” [4]

Duos for Doris” non è soltanto la prima scintilla di un dialogo artistico che, contro ogni aspettativa, si sarebbe poi riproposto a intervalli irregolari nel futuro – e nell’inesorabile avanzare di età anagrafiche già consistenti –: è l’atto fondativo che sancisce l’avvio di una nuova pratica performativa per i due decani della “scuola inglese”, l’ingresso in un sentiero che condurrà a esiti di sempre più radicale non-significazione. In tal senso “Cathnor” (il nome si riferisce forse alla via londinese in cui abitava la madre di Tilbury), coi suoi 70 minuti di durata, è al contempo un manifesto e la sua negazione, un atto di rinuncia espressiva il cui riverbero permane ancora oggi nel loro sporadico operato.

In prima battuta si fa strada un ronzio sottocutaneo, quasi un room tone generato dal feedback della chitarra, al quale si aggiunge il più concreto vibrare di un rasoio o di un piccolo ventilatore; i tasti e le corde del pianoforte sembrano assenti a loro stessi per i primi dieci minuti, dopo i quali vanno prendendo forma accordi affilati e dissonanti che disperdono risonanze naturali per un secondo appena, prima di essere riassorbiti dal grigio sfrigolio dell’amplificazione elettrica; in prossimità del ventesimo minuto hanno ormai l’aspetto di stilettate, ammorbidite poco dopo soltanto dalla calma sospesa degli accordi e delle sequenze ascendenti d’eredità feldmaniana.

In assenza, però, di un chiaro sviluppo drammatico – tra improvvise sollevazioni e susseguenti, lunghissimi rientri nei ranghi – è impossibile prevedere il momento in cui il brumoso paesaggio elettroacustico verrà d’un tratto scosso da un tormento indicibile, uno svuotamento subitaneo di tutta la tensione accumulata negli intervalli di note a malapena evocate. Quando sembrava ormai che il duo stesse eludendo completamente la mìmesis, la significazione sonora ed emotiva, d’un tratto il registro acuto della tastiera lascia emergere e poi violentemente sgorgare dal fondo dell’abisso tutto il dolore e l’afflizione di un addio ancora troppo vicino e impossibile da razionalizzare, la crudezza di un risveglio necessario a rivendicare l’umana fragilità di Tilbury, cui anche il sottile lamento monodico della chitarra di Rowe sembra poi rispondere in tono benevolo e confortante.
I restanti venticinque minuti circa sembrano voler adombrare e quasi negare la sofferta estasi di quel momento viscerale, tracciando segni leggeri in un terreno d’astrazione che si rifà prossimo all’assenza, attraversato qua e là da puntillismi sbiaditi e “cancellature” sul corpo inerte della chitarra, membra spogliate per sempre del sembiante che nel corso dei secoli ha accolto il richiamo delle muse.

La singolarità dell’evento non-musicale racchiuso nel primo cd si rende pienamente evidente soltanto nel contrasto col secondo: foriero di un interplay decisamente più dinamico e variegato, “Olaf” vede il duo ritornare alla nitidezza di alcuni elementi tipici della sua poetica, dalla dolce percussività del pianoforte preparato alle incursioni randomiche delle frequenze radio attivate da Rowe. Le ruvide increspature della chitarra si affacciano su di un basamento statico, un’onda corta che finisce per attraversare l’intera porzione della session, dove le timide progressioni di Tilbury sono l’ombra di un canto solitario e del tutto richiuso in se stesso, un lirismo greve e autoreferenziale che sembra inseguire le linee di un encefalogramma patologicamente discontinuo.
Con il segmento finale “Oxleay” la sospensione tonale e temporale mutuata da Morton Feldman si manifesta senza remore tra i tasti del piano, mentre la superficie afona della chitarra amplificata si comprime ulteriormente in un refolo di vento artificiale, corroso appena al limitare dei minuti finali, necessario tremito di presenza/assenza di un esecutore altrimenti rimasto stoicamente a margine del quadro.

Qualche tempo dopo Olewnick redasse un racconto della session per il sito Bagatellen, evidenziando quello che a suo parere era stata una nuova strategia di disturbo attuata da Rowe in questa circostanza: secondo lui il chitarrista avrebbe infatti prodotto dei rumori potenti e improvvisi laddove l’esecuzione di Tilbury si fosse fatta troppo aggraziata, troppo “romantica”. In seguito, anche sulla scorta della controversia relativa a “The Hands of Caravaggio”, il pianista avrebbe interpretato tale comportamento come l’ulteriore conferma di una “manipolazione e mania di controllo” ai suoi danni.

Riporta Abbey: “In seguito ho pubblicato [“Duos For Doris”] più veloce possibile, prima che John potesse decidere che anch’io divenissi parte del suo boicottaggio, e ho spedito le copie quattro mesi dopo la registrazione” [5]. Nel maggio dello stesso anno viene dunque dato alle stampe il doppio cd, destinato a rimanere una delle produzioni più iconiche e distintive del catalogo Erstwhile.

Tra la fine del 2003 e la prima metà del 2004 ebbero luogo gli ultimi concerti in trio come AMM: in novembre a Glasgow e in maggio a Londra, quest’ultima in formazione congiunta con MEV (Musica Elettronica Viva) – Alvin Curran ai sampler e alle percussioni, Frederic Rzewski al pianoforte e Richard Teitelbaum al sintetizzatore. Inoltre, il 4 marzo 2004, il duo Rowe/Tilbury si era esibito alla Holy Trinity Church di Leeds, il cui organo a canne consentì al secondo di sostenere toni continui che arrivarono a imitare le onde corte solitamente controllate da Rowe.

Ciò nonostante, “non molto tempo dopo [“Duos for Doris”] avvenne lo scioglimento di AMM, un’amara questione. Sembrava altamente improbabile che Rowe avrebbe più suonato con i suoi vecchi compagni. Nel 2008 la madre dello stesso Rowe, Eileen Elizabeth Charters-Rowe, morì. Venuto a sapere del fatto, Tilbury riprese contatto con lui e in seguito suggerì che, così come il primo duo finì per essere incentrato sulla morte di sua madre, forse avrebbero potuto ritrovarsi per onorare quella di Rowe. Per fortuna, tale evento ebbe luogo nel dicembre del 2010 al Les Instants Chavirés, locale situato nella banlieue parigina di Montreuil. [6]


E.E. Tension and Circumstance, Potlatch, 2011

Dopo sei anni di silenzio, di “fine trasmissioni” tra due ex colleghi e amici, la scomparsa di Eileen Rowe offre dunque l’occasione per un nuovo ricongiungimento artistico. Keith Rowe si era già esibito nel locale francese nel 1999, in trio con Taku Sugimoto e Günter Müller, la cui incisione aveva segnato l’inizio del proficuo rapporto con Jon Abbey (“The World Turned Upside Down”, Erstwhile, 2000).
Il clima di leggero spaesamento che ammanta l’evento è chiaramente percepibile anche nella registrazione: in particolare, quella del pianoforte è un’emersione dal buio rapida e nervosa, come le prime battute di una conversazione iniziata molto prima nella mente di Tilbury ma che ora si manifesta in frammenti sconnessi. Scrive John Eyles: “Non c’è un preambolo atto a ‘riprendere confidenza’, nessuna lotta per la supremazia e nessun imbarazzante ‘dopo di te’. Invece, ognuno fa quello che sa fare meglio, adattandosi apparentemente d’istinto al suonare dell’altro”. [7]

Poco dopo Tilbury comincia ad agire direttamente sulle corde del pianoforte aperto, mentre i ronzii, i cortocircuiti e gli sfregamenti prodotti da Rowe si fanno man mano più improvvisi e percettibili. Attorno al decimo minuto prendono forma elementi ricorrenti, quasi dei refrain che introducono una fase più apertamente “musicale”: tra le esitanti melodie il piano sembra preludere a un momento liberatorio simile alla tormentata epifania di “Cathnor”, laddove invece la palpabile tensione sottolineata nel titolo rimane sostanzialmente senza un vero sfocio.
Tilbury devia dall’apparente impasse ricorrendo al suo fidato richiamo per uccelli, elemento sommamente estraneo ma così singolare da portare alle estreme conseguenze lo sforzo profuso nella più solenne non-significazione. Parimenti, un piccolo ventilatore sfiora la superficie delle corde superando le possibilità umane di pizzicamento delle stesse, generando un frinìo artificiale che per qualche lungo istante invade lo spazio con fitte frequenze acute.
Ma nel corso di questa ora scarsa non c’è quasi un attimo di vero silenzio, dato che la chitarra di Rowe alterna linee statiche più o meno spesse ma sempre presenti, fenomeno che contribuisce a conservare il senso di inquieta desolazione del brano/suite. Solo nelle ultime battute i gesti tornano a farsi lenti e “ragionati”, conducendo a uno spegnimento graduale il dialogo sommesso e rarefatto dei due colleghi.

Pubblicato un anno più tardi dall’etichetta Potlatch, l’artwork di “E.E. Tension and Circumstance” presenta un disegno a pennarelli colorati del fratello minore Milford Charters-Rowe (1950-2008), mentre sul retro Keith ha imitato la scrittura della madre per riportare il titolo e le specifiche della performance e dell’album.In una recensione Richard Pinnell, testimone in prima persona della performance, scrive: “Alla fine del disco ci sono un paio di minuti di apparente silenzio (– di fatto quasi cinque, ndr). Ascoltandoli ora mi raffiguro vividamente gli accadimenti nella sala da concerto. Ricordo il volto di Rowe mentre guardava in lontananza. Tilbury, invece, faceva danzare le dita in modo frenetico e silenzioso lungo i tasti del pianoforte, accarezzandoli leggermente e creando i più delicati suoni percussivi. A un certo punto le sue dita scivolarono, un momento circostanziato che rilasciò nella stanza una singola nota troncata. Questo silenzio, assieme alla casualità della nota accidentale, è rimasto nella registrazione dell’album.” [8]


enough still not to know, Sofa Music, 2015

Nell’aprile 2007 Keith Rowe aveva collaborato a un’installazione video di Kjell Bjørgeengen nell’ambito di una residenza presso Esquilo Records, a Porto: “un progetto che mira a mettere in discussione il ruolo della radio nella creazione artistica contemporanea, attraverso la musica e le immagini”. [9] I due artisti sviluppano un sistema d’interazione tra i feedback della chitarra e il canale video proiettato su schermo: il chitarrista forniva input sonori che si traducevano in sfarfallii e pattern minimali di bianco e nero, elementi visivi essenziali che poi avrebbe a sua volta “letto” come uno spartito per condurre l’esecuzione in altre direzioni.
Rowe e Bjørgeengen si sarebbero poi incontrati di nuovo in tre occasioni, a febbraio e a dicembre del 2010, rispettivamente al CAN (Centre d’art Neuchâtel) in Svizzera, al centro Experimental Intermedia di New York (progetto curato da Phill Niblock) e al sopracitato Les Instants Chavirés di Montreuil, pochi giorni prima del duo di “E.E. Tension and Circumstance”. Sarà soltanto nel 2013 che i due coinvolgeranno anche Tilbury per un paio di esibizioni a Oslo, tra febbraio e marzo 2013.

Queste le premesse alla base del quadruplo cd “enough still not to know”, inciso tra il 17 e il 18 luglio del 2014 presso i City Music University Studios di Londra. La correlazione con i “flicker video” di Kjell Bjørgeengen è in pratica l’unica giustificazione per l’inclusione (destinata a ripetersi tre anni dopo) all’interno del catalogo fieramente nazionalista dell’etichetta norvegese Sofa, fondata e curata dal percussionista sperimentale Ingar Zach.Inizialmente un’opzione per il titolo del lungo set di Rowe e Tilbury era “Late Music”: un sardonico riferimento al fatto che allora i musicisti avevano già rispettivamente 74 e 78 anni di età, senza contare che in inglese, in base al contesto, il termine late può significare ‘tardo’ come anche ‘defunto’. La scelta è poi ricaduta su una frase contenuta nella novella “Worstward Ho” di Samuel Beckett – nume tutelare di ricorrente ispirazione per il maestro Morton Feldman come per il discepolo Tilbury –: un testo che l’autore stesso dichiara intraducibile in lingua latina, avviluppato com’è in giochi di parole allitterativi e vertiginosi nonsense.

[…] Ancora dunque le spoglie di mente. Ancora troppo. Ancora troppo di un qualche chi da un qualche dove in qualche modo. Niente mente eppure parole? Anche queste a loro volta parole. E così ancora troppo. Quel tanto ancora di troppo per gioire. Gioire! Quel tanto ancora di troppo per gioire che soltanto loro. Soltanto!
Ancora troppo per non sapere. Non sapere quello che loro dicono. Non sapere cos’è che le parole che dice dicono. [10]

In questo caso la performance del duo non entra in dialogo diretto con gli schermi di Bjørgeengen: ciò nonostante, l’esile libretto in total black riporta le intenzioni dell’artista scandinavo in merito alla “musica” da creare per la sua installazione:

Volevo che i silenzi fossero capaci di operare piccoli, piccolissimi cambiamenti nel video. In un certo senso, come l’effetto drammatico di quando un attore No, dopo aver rallentato la nostra percezione del tempo, fa un movimento col piede, e quel piccolo movimento è percepito come un evento drammatico.
Prima della registrazione abbiamo parlato dell’installazione video come uno spazio dove le persone possono entrare a piacere, e forse senza nemmeno aspettarsi di ascoltare della musica. Non c’era pressione verso una musicalità in senso tradizionale, un senso di traiettoria o movimento, ma la possibilità di essere nel momento. Così per il momento di silenzio, e otteniamo una reminiscenza dell’andare dentro e fuori dalla vita, dal nulla a qualcosa e viceversa. [11]

A chi conosce il percorso espressivo del duo sino a questo momento, le indicazioni sul rapporto presenza/assenza sembreranno lecitamente superflue: sarebbe improbabile, infatti, non soltanto che il duo deviasse da quella consolidata formula di interplay riflessivo e discontinuo, ma ancor prima che accetti di incontrarsi in un contesto che non favorisca tali condizioni di assoluta avulsione dal mondo esterno – uno spazio fisico e mentale entro il quale detenere il controllo arbitrario sul silenzio e sui suoni che lo turbano o interrompono brevemente.
“Ogni parola è una macchia inutile sul silenzio e sul nulla”: davvero lo spirito di Beckett permea più che mai i gesti parsimoniosi e inconsequenziali del duo, cesure nell’inerte tessuto sonoro che assumono così una pregnanza singolare e irripetibile.

Gli elementi sono quelli usuali: preparazione del pianoforte – che di conseguenza torna a una percussività in rapporto liberamente variabile con l’armonia –, oggetti atti a (tra)sfigurare l’identità sonora della chitarra amplificata, droni elettroacustici al limite dell’inudibile, silenzi immoti e prolungati. Ma risulta arduo e finanche controproducente individuare, esaminare e interpretare una lunghissima anti-drammaturgia fondata sulla convinzione che, in ultima analisi, la presenza di un esecutore sia superflua e che ogni atto sonoro trattenuto equivalga al compierlo.

Soltanto l’ultima mezz’ora, isolata nel quarto disco del boxset e probabilmente registrata nel secondo giorno di sessioni, presenta un dinamismo e una varietà di soluzioni tali da distinguerla rispetto al resto, come fosse un corollario o l’encore per un pubblico che non c’è e forse, nella loro visione, mai ci sarà. Una raccolta di momenti il cui unico filo rosso sono le luminose risonanze del pianoforte preparato e non, stabilmente situato nel registro medio, mentre gli interventi di Rowe sono ancora una volta estremamente pazienti e “calcolati”, talvolta anche brutali nel sovrastare il vuoto.
In maniera inconsueta, nelle note di copertina, il chitarrista fornisce persino una tabella temporale riferita ai “contrastanti materiali della quarta sezione”: una sorta di mappa concettuale che rintraccia il vissuto umano e artistico dello sperimentatore in momenti e immagini sparse, dalle storiche performance aleatorie di David Tudor al cinema di Béla Tarr, dal ricordo delle partiture grafiche di Cornelius Cardew alla live session viennese col sassofonista Martin Küchen, sino a ricordi e sentimenti più intimi e astratti.

(00:00:50) memory.
(00:01:54) shock, Tudor 1962.
(00:03:55) Abbey, recalling 2004.
(00:05:30) le Grice, chang, 1959.
(00:06:50) Kuchen, song 2013.
(00:08:30) scratching, Kjell 2012.
(00:10:15) abrupt, Tudor 1962.
(00:16:30) Tarr, girl walking with her dead cat 1994.
(00:18:50) pan cleaner, Edges Wolff 1968.
(00:20:50) timeline.
(00:24:30) elements of treatise, Cardew 1968.
(00:26:25) memory of the past, Brian 1940.
(00:27:40) the fog of history.
(00:30:20) the sound of drawing, Uglow, Hartley.
[12]

Persino per Rowe e Tilbury, dopo un così monumentale sforzo di non-significazione, sarebbe difficile concepire un atto più estremo, a meno di assecondare in pieno il ben noto canone cageano di 4’33’’, teatro assente della musica contemporanea a venire. “Una fede in niente ma totale” [13], recita il titolo di una raccolta di scritti dell’artista contemporaneo Claudio Parmiggiani sulla propria poetica: è la dichiarazione d’esistenza e liceità di un’arte religiosa benché affrancata dalle confessioni riconosciute e praticate dalla collettività; dunque la possibilità di una devota dedizione al proprio sentire e creare, come i soli officianti di una liturgia profana ma sacrale, universale pur nella sua profonda e ineludibile individualità.
“Art for art’s sake”, certo: ma in pochi sembrano avere una concezione così elevata di ciò che è l’arte, e di quale sia il suo valore al netto del gusto collettivo e del mercato che l’hanno irrimediabilmente corrotta. 214 minuti e 46 secondi più tardi, Godot non è arrivato. O forse, non visto, è sempre stato lì.


In seguito all’invito da parte di un festival di musica contemporanea a Huddersfield, l’ormai storica formazione a tre della sigla AMM – Prévost, Rowe, Tilbury – torna insieme per festeggiare il cinquantesimo anniversario dello storico progetto free impro, avviando a fine 2015 una serie di performance in giro per il mondo, tre delle quali poi incluse nella raccolta “An Unintended Legacy” (Matchless, 2018).
Questo insperato “disgelo” riapre nuovi spiragli anche in rapporto alle potenzialità espressive dei componenti, regalando agli ascoltatori affezionati momenti d’ispirazione rigenerata, inclusa la successiva occasione d’incontro del duo Rowe/Tilbury.


Sissel, Sofa Music, 2018

Nel 2016 si spegne all’età di 76 anni la moglie di Kjell Bjørgeengen, Sissel Bakken. Poche settimane dopo, nel gennaio del 2017, i tre artisti si reincontrano per una live session  in sua memoria al festival Moving Sounds di Stavanger. Tra le scarne informazioni all’interno del cd un semplice epitaffio: “Abbiamo creato questa musica con Sissel nei nostri cuori e nelle nostre menti”.

Pur non contemplando prove generali prima delle esibizioni, Rowe e Tilbury hanno accolto la suggestione visiva che l’artista scandinavo ha proposto come “immagine-guida” della performance: si tratta di un dipinto di Nicolas Poussin, “Paesaggio con le ceneri di Focione” (1648), conservato presso la Walker Art Gallery di Liverpool. A narrare la vicenda storica del soggetto fu Plutarco nelle sue “Vite degli uomini illustri”: il generale ateniese Focione, accusato ingiustamente di tradimento dai suoi avversari politici, nel 318 a.C. fu condannato a morte per avvelenamento e non gli fu permesso di essere sepolto in patria; la sua vedova ne dispose dunque la cremazione alla periferia di Megara, dove è ambientata la scena raffigurata dal classicista Poussin, artista tra i più rinomati del suo tempo.

Anche soltanto uno sguardo fugace rivela il senso generale dell’olio su tela: sebbene la figura femminile, chinata a raccogliere le ceneri del caro estinto, sia posta in primo piano rispetto a tutti gli altri elementi, la sovrastante imponenza della polis e delle formazioni montuose sullo sfondo catturano lo sguardo e lo indirizzano verso il punto di fuga; oltre a ciò, come nei celebri capolavori di Bruegel il Vecchio, gli abitanti del luogo proseguono nelle loro attività quotidiane di sempre, mettendo così in prospettiva gli eventi più significativi e le tragedie individuali che si consumano a poca distanza.

Per vie laterali, dunque, si esplicita lo spirito con cui i tre performer si sono approcciati ai loro strumenti, ancora una volta paradossalmente atti a esprimere un’incomunicabilità dalla quale risulta impossibile svincolarsi. Dichiara lo stesso Keith Rowe: “In questa direzione si è mossa la mia musica nell’ultimo decennio, un muto grattare in primo piano, e il chiacchiericcio e il rumore della vita umana vagamente da qualche parte sullo sfondo”. Il suo è, tipicamente, un tappeto di ronzii, fruscii e interferenze elettroacustiche generate dalla preparazione e amplificazione della chitarra: variazioni su un tema senza traccia di tonalità, talvolta ruvido e pervasivo, talaltra quasi del tutto inudibile. La caratterizzazione emotiva spetta al solenne e malinconico pianoforte di Tilbury, forse mai così “presente” e limpido prima d’ora, in perfetto equilibrio tra il distacco zen di Cage e la dilatazione temporale di Feldman portata all’estremo.
Forse c’entra il fatto che per la prima volta il rito funebre non ha un legame diretto con i familiari del duo Rowe/Tilbury: comunque sia, la loro esecuzione è di gran lunga la meno impenetrabile del loro catalogo, attraversata da un respiro tendenzialmente più lieve e fiducioso, al confronto coi precedenti più simile a una ninna-nanna che a un ferale ed esitante discorso d’addio.

Benché di natura prettamente visiva, l’intervento di Bjørgeengen ha diretta derivazione dai suoni prodotti dai due musicisti, generando una forma elementare di alternanza caotica tra bianco e nero, luce e buio, simile all’effetto statico dei vecchi televisori in assenza di segnale. Le frequenze audio del piano e della chitarra distorcono in tempo reale la sequenza di frame minimali proiettata sullo schermo, nervosa e allucinata rielaborazione di un vuoto contatto tra input binari artificiali.
Lo spirito della circostanza performativa si esprime anche nella consapevolezza che, nel corso della performance, una registrazione della Ciaccona di Bach (nell’interpretazione della pianista Tatiana Nikolayeva) viene riprodotta a volume spento, ed è quindi al contempo presente e assente nello spazio fisico e acustico. Ma solo negli ultimi cinque minuti si crea una vera attesa, un silenzio gravido di coscienza artistica e autocontrollo, dissolvenza naturale in direzione del ritorno alla vita reale e vissuta.

L’intenso memoriale di “Sissel” ci consegna una volta di più l’interrogativo, anzi il mistero, per cui un dialogo strumentale così quieto ed ermetico riesca a essere, a suo modo, struggente a un livello così puro e primordiale, nonché capace di lasciare emergere in maniera trasparente la profonda umanità dei suoi fautori. La risposta – se c’è – risiede nell’ascolto stesso, e in nessun altrove. [14]


Note:

[1] Brian Olewnick, recensione di “The Hands of Caravaggio” su AllMusic
[2] Estratti da un post su Facebook dedicato al progetto per “Duos For Doris”
[3] B. Olewnick, recensione di “E.E. Tension and Circumstance” sul blog personale Just Outside, gennaio 2012
[4] B. Olewnick, Keith Rowe. The Room Extended, powerHouse Books, 2018, p. 344
[5] J. Abbey, ib.
[6] vedi nota 3
[7] John Eyles, recensione di “E.E. Tension and Circumstance” su All About Jazz, 21 gennaio 2012
[8] Richard Pinnell, recensione su The Watchful Ear, 9 gennaio 2012
[9] Note di programma della Fundaçao de Serralves
[10] Dal racconto “Peggio tutta”, in Samuel Beckett, In nessun modo ancora, Einaudi, 2008, traduzione di Gabriele Frasca. (Grassetto mio)
[11] Note di copertina per “enough still not to know”, Sofa Music, 2015
[12] ib.
[13] Andrea Cortellessa (a cura di), Claudio Parmiggiani. Una fede in niente ma totale, Le Lettere, 2010
[14] Estratti adattati dalla mia recensione di “Sissel” per OndaRock, 29 maggio 2018


Michele Palozzo è critico e curatore musicale indipendente. È redattore stabile della webzine Ondarock.it, per la quale coordina la sezione altrisuoni. È co-fondatore e direttore artistico del progetto culturale Plunge, attivo a Milano nell’ideazione e organizzazione di concerti ed eventi performativi dedicati alle più interessanti espressioni sonore contemporanee.