Diaspora e nomadismi, intervista a Ghédalia Tazartès.

testo: Giulia De Val

Originario di una comunità ladina, di ceppo ebraico-ispanico, Ghédalia Tazartès nasce a Parigi nel ’47 dove tuttora risiede. Qui, poco lontano da quella Notre-Dame cantata in Quasimodo Tango, ci accoglie nella sua casa dove inizia a raccontarci dei suoi nomadismi, di come ha iniziato a cantare nel bosco, le sue collaborazioni con la danza, il teatro e il cinema sperimentale, i suoi prossimi progetti.

Difficile parlare di Ghédalia con un approccio analitico e cercare di classificarlo (magari tra i non classificabili) senza sviare immediatamente, senza pensare alla grana della sua voce, alla polpa delle sue labbra e al suo linguaggio sonoro inventato (non a caso si è guadagnato in questi anni la nomea di sciamano). Eppure è giusto spendere qualche parola su un improvvisatore, ancora poco riconosciuto in Italia, che ha interagito con alcuni tra i principali esponenti del Groupe de recherches musicales come Michel Chion e Pierre Henry, partendo da materiale domestico e autocostruito.

Grati ed emozionati per questo incontro restituiamo le sue parole, in una prima intervista italiana.

Possiamo partire dalla parola “diaspora”, il titolo del tuo primo album, qual è l’importanza di questa parola sia nella tua storia personale che nel tuo lavoro?

GT: Era il mio primo disco, scelsi questo titolo perché mi sembrava di scoprire io stesso la musica che stavo facendo. Quando fai una cosa artistica magari non capisci bene come l’hai fatta, continui, ne fai un’altra per capire come hai fatto quella prima, è una catena. Mi sembrava piuttosto un “nomadismo musicale“, anche perché non avevo una formazione da musicista, non sapevo suonare uno strumento anche se avrei voluto essere musicista. Ci ho provato ma non con abbastanza determinazione. Cercavo ancora il mio strumento, sapevo che sapevo cantare, lo facevo nel bosco, per le anatre, per me, l’ho fatto tantissimo quando è morta mia nonna per portare fuori di me una certa colpevolezza e tristezza (ero un ragazzino un po’ cattivo). Quindi, sapevo di cantare, ma non mi sembrava uno strumento, fino a quando ho incontrato un magnetofono.

Degli amici volevano fare un gruppo rock e mi chiesero di fare il cantante perché sapevano che avevo una bella voce, ma il gruppo è durato quindici giorni perché ho litigato con il bassista che voleva dirigere tutto e voleva farmi cantare in inglese. Mi sono ritrovato da solo con il microfono che avevo comprato e delle cassette… e mi sono detto “farò le cose da solo!”. Così ho iniziato a registrare su cassetta, poi ci ho cantato sopra ed – ecco! – già eravamo un duo, e poi sono passato a due, tre cassette. Dopo un po’ si perdeva la qualità, così, su consiglio di un’amica ho comprato un registratore stereofonico di seconda mano su cui potevo lavorare su più piste parallelamente con voce e altri piccoli strumenti. Dopo anni mi sono ritrovato con molto materiale e un amico mi ha chiesto di fare un disco. Il titolo è venuto perché mi sentivo un randagio musicale insomma, un nomade, una minoranza. E come ebreo, anche se non sono religioso, “diaspora” mi sembrava una parola giusta.

Com’è nata la tua collaborazione con Michel Chion e qual era il tuo rapporto all’epoca con il GRM (Groupe de Recherches Musicales)?

GT: Michel era l’amico dell’amichetta di un amico; questa amichetta era insegnante di pianoforte e me l’ha presentato. Michel Chion è stato la prima persona a convincermi: io non pretendevo di fare musica, facevo qualcosa, l’avrei definita piuttosto “pittura sonora”, una cosa che sapevo artistica ma che non avrei detto “musica”, la chiamavo “impromuz”. È Michel Chion, con i suoi termini classici, che mi ha spiegato che io facevo un’ “opera”, una parola che a me sembrava di una presunzione folle. Lui si stupiva che io facessi le cose in casa con i miei stessi mezzi e non con dei gran microfoni o dei gran magnetofoni. Molti di quelli che usavano i magnetofoni andavano la notte negli studi di Radio France, non avevano la possibilità di avere il loro stesso materiale. Anche Pierre Henry, che era già molto conosciuto, lavorava negli studi quando poteva. In quel periodo ero l’unico a fare in casa quel tipo di musica; magari la qualità non era equivalente a quella di uno studio professionale, ma…era musica!

È quindi Michel Chion che mi ha definito “musicista” e mi ha fatto salire di livello, anche ai miei stessi occhi.

Ed è lui ad aver scritto la musica di Quasimodo Tango?

GT: Ormai eravamo degli amici e lui mi ha fatto sentire un tango molto bello che aveva scritto; ero con il motorino a Parigi attorno a Notre-Dame e mi sono venute in mente delle parole. Avevo sentito alla radio che il tango ha delle regole precise, non è solo una musica argentina, ma è una musica di città, deve necessariamente essere un dramma, spesso di amore e di morte, che si consuma in città. Attorno a Notre-Dame c’è la storia, molto famosa, di Quasimodo che si getta dalla torre per amore di Esmeralda e mi è sembrata una storia perfetta.

Tu hai collaborato sia con il teatro che con la danza…

GT: È successo anche perché con i dischi non potevo vivere…con una musica strana così! Ho iniziato a fare dei concerti, ma ne facevo uno ogni sei mesi e neanche di questo potevo vivere, soprattutto perché a quel tempo non era come adesso che tutti sono abituati a musiche strane, elettroniche, allora c’era la metà della sala che mi guardava stupita perché non aveva mai sentito una roba del genere e l’altra metà che urlava “vogliamo il rock’n’roll! Vogliamo il rock’n’roll… Du Rock! Du Rock!”, i rimanenti fischiavano perché volevano ascoltare. Non potevo vivere della mia musica, c’era chi lavorava alla radio (come Chion), chi lavorava per delle riviste, ma io non avevo la cultura per farlo. Per quanto riguarda la danza, in quel periodo qui a Parigi c’era un movimento di giovani che volevano rivoltare completamente le carte. Partivano una formazione più o meno classica o jazz, o entrambe, ma volevano dire la loro. Ho lavorato con loro sul palco, cantando, o fuori palco, come compositore. Dopo quindici anni mi sono stancato perché non c’era una materia e partivamo sempre dal nulla… era molto difficile, mi sembrava di dover portare sempre delle idee. Questo mi ha spinto verso il teatro, avrei potuto parlare con un regista e servire Shakespeare, servire Beckett, avere una nuova visione di Molière…

Ed è successo?

GT: Sì, quando ho un’idea in testa, mi succede.

E il regista in questione chiese se volevo curare la parte musicale di Aspettando Godot di Beckett.

In realtà avevo già perso l’occasione di lavorare con lui in passato, per troppa umiltà.

Questa volta gli risposi che conoscevo bene Aspettando Godot, ma che era una pièce senza bisogno di musica. Così lui pensò a un mio secondo rifiuto e dovetti rivedere la mia posizione, ma poi successe che ci provammo e ci intendemmo meravigliosamente, soprattutto con gli attori che erano i più dotati della sua classe del Conservatorio. Abbiamo realizzato un Godot che ha girato bene per quattro anni. Ho collaborato con lui per quindici anni in totale. Lui era Philppe Adrien, ma ho lavorato poi con altri registi.

A teatro però il musicista deve sparire, in favore degli attori, e dopo anni ho sentito la voglia di stare nella luce. Ho deciso di riprendere quello che facevo all’inizio, dei concerti in solo e per un periodo in trio con due giovani improvvisatori, il progetto si chiamava Reines D’Angleterre con cui ho realizzato due vinili.

Hai collaborato anche con il cinema sperimentale, cosa è successo con La stregoneria nei secoli (Häxan) di Benjamin Christensen?

GT: Una storia particolare ancora una volta, il mio agente mi ha proposto di provare il cine-concerto e mi ha presentato dei ragazzi che avevano comprato i diritti di Häxan e che mi proponevano di fare la musica per questo film muto. Il film era bello, ma molto lungo per la mia musica, che è molto densa, e aveva delle scritte in danese che interrompevano la scena e duravano molti minuti. Avrei voluto uniformare il bianco e nero, dato che a volte l’immagine diventava verde, rossa, viola, e accorciare le scritte, ma non era possibile. Intanto l’agente mi chiamava per chiedere cosa ne pensassi del film. Per prima cosa gli dissi che avendo la nomea dello sciamano forse non era una buona idea lavorare su un film sulle streghe (in fondo sono un parigino, una persona normale) e poi gli accennai alle altre questioni. Ma poi lui mi disse “hai guardato la versione del ’68 fatta da William Burroughs con l’autore?” ed era esattamente l’adattamento che volevo. E così ho deciso di farlo, anche perché è un film femminista che parla della stregoneria come fenomeno contro le donne. Ho iniziato a girare sonorizzando dal vivo quella versione, di Burroughs. Anche se la sonorizzazione dal vivo dopo un po’ diventa molto faticosa per la concentrazione per via del sincrono.

E ora?

GT: Continuo in solo, con la voce e il nastro, ho delle date programmate a Bruxelles e Copenhagen, e un amico sta mettendo insieme tutta la mia discografia in buona qualità che si potrà ascoltare e acquistare online tra due o tre mesi.