Oralità contemporanee – Il LabPerm di Domenico Castaldo
|Autore: Giulia De Val|
Parrebbe che oggi abbiamo abbandonato i nostri orizzonti consueti del mondo elettro-acustico, eppure al di là della divisione delle arti in compartimenti stagni, è possibile scorgere un’inaspettata consonanza tra il mondo delle sperimentazioni vocali dell’improvvisazione tout-court (da David Moss a Phil Minton) e le esperienze teatrali che mettono al centro il lavoro quotidiano sul corpo-voce (il lavoro di Mario Biagini e Thomas Richards del Workcenter di Pontedera, quello di Teatro Valdoca, così come quello del LapPerm di Domenico Castaldo che oggi abbiamo incontrato.
Questi due mondi, si muovono come satelliti di uno stesso pianeta: uno strano ammasso celeste in cui al centro è il canto, o meglio, tutte le possibilità sonore che provengono dalla bocca e che, anche quando definite forme “sperimentali”, tendono forse di più alla forma sacra dell’oralità antica.
Il Lab Perm, che nasce nel ’97 da Domenico Castaldo e che ha sede nell’ex Cimitero di San Pietro in Vincoli a Torino, si presenta oggi come un gruppo di cinque attori (Domenico Castaldo, Ginevra Giachetti, Marta Laneri, Rui Alber Padul e Natalia Sangiorgio). Oltre alle produzioni originali, il team del LabPerm è fondatore di L.U.P.A. Libera Università sulla Persona in Armonia, una libera università (in espansione) che promuove una molteplicità di insegnamenti sull’arte dell’attore e che vede coinvolti una molteplicità di docenti (attori, storici del teatro, psicologi).
Diplomato al Teatro Stabile di Torino nel ’93, Domenico Castaldo lavora dal ’95 al ’97 al Workcenter di Pontedera con Jerzy Grotowsky e Thomas Richards.
Fondando il LabPerm decide di concentrarsi sull’ “arte dell’attore”, uno scrigno che permette a tutto il team di approcciare una vastità di materie a partire dalla conoscenza del proprio corpo in relazione alla società in cui viviamo e al pensiero di essa, ma anche il teatro o “arte della recitazione”, passando per filosofia, teologia, architettura, storia, storia del teatro, fisica e matematica, in base ai diversi oggetti di indagine.
Molti teatri del passato, ma anche del presente, si sono definiti “teatro laboratorio”, con quali vi sentite più affini?
Domenico Castaldo: è molto difficile per me dire a chi mi sento affine. Mi piacerebbe dirmi affine alle esperienze teatrali che ammiro, ma posso io stesso dirmi affine? Meglio che venga detto da chi ci osserva. Più interessante invece è il concetto di “laboratorio”. Vorrei che il LabPerm fosse affine a tutte le forme di laboratorio artigiano o scientifico, luoghi in cui si può studiare, andare a fondo nelle cose. Un laboratorio di analisi medica prende una goccia di sangue, la osserva, la analizza. Il nostro studiare è generare possiblità e combinazioni nello spazio e nel tempo. Prendiamo ad esempio le combinazioni di persone che hanno formato i molti gruppi che si sono avvicendati negli anni al LabPerm. Si è scoperto che bastano piccole variazioni a trasformare l’intero gruppo, allora ci si deve adeguare, ovvero studiare come la/le novità hanno cambiato completamente il modo di relazionarsi in tutti e lavorare sulla proposta più adeguata. L’idea di laboratorio offre alla conoscenza in due distinte direzioni: conoscere meglio se stessi ed elaborare strumenti sempre più efficaci per relazionarsi con il mondo, insomma come rinnovare la funzione di questo mestiere. Un performer può de-vertere, dall’etimologia latina ovvero spostare l’attenzione dal quotidiano allo straordinario, oppure essere attratto dall’“esibirsi”, seguire il bisogno edonistico di esprimersi innanzi ad un pubblico. In entrambi i casi occorre una tecnica molto precisa, ma se questo sapere blocca la crescita dell’umanità nel performer, l’espressione si limita all’esibizione della tecnica stessa e la funzione muore su se stessa. Il confine tra le due vie è sottile.
Come si fa a essere canali di qualcosa che è parte della nostra vita, ma non è solo di questa vita? La nostra quotidianità è limitata da abitudini e paure, immergerci nello studio dell’arte dell’attore può essere come tuffarsi in una goccia d’acqua per affondare in un universo parallelo. Questo è il tipo di laboratorio a cui vorrei essere affine.
Qual è l’esigenza che vi ha fatto decidere di fondare L.U.P.A.?
Domenico Castaldo: In questo momento il mercato del teatro è sterile. La logica capitalistica non contempla la cultura dell’arte, ma l’arte come merce; è un meccanismo paradossale, strangola la nostra funzione, come tenere un animale vivo in frigorifero. Il successo, che permette di sostenersi col la vendita dei propri spettacoli, non è necessariamente un indice di qualità o approfondimento, pertanto bisogna riadattare le proprie capacità ad un altro tipo di soggetti e di tessuto sociale. Da questi limiti è nata L.U.P.A. (Libera Università sulla Persona in Armonia). Si tratta di un’evoluzione naturale e organica, che era nei miei progetti già da molti anni. Produrre spettacoli rimane nelle nostre facoltà, ma rinunciamo alla logica della produzione che impone ogni anno un nuovo spettacolo. L.U.P.A. è una via per applicare tecniche attoriali, affinate in più di vent’anni di studio, al fine di renderle utili oltre la performance. Ad esempio, nella conduzione delle persone iscritte ai diversi percorsi L.U.P.A., a comunicare meglio con se stesse; meglio comunichiamo con noi stessi, meglio comunichiamo con gli altri e magari con qualcosa di più grande, che ci contiene, che sta sopra, sotto, in alto… che non sta…
Com’è articolata?
Marta Laneri: Questa Libera Università è per scelta una “non scuola”, immaginata come un centro di saperi e di conoscenza. Come docenti ci siamo noi ed altri professionisti. E come allievi, persone di tutte le età. L.U.P.A. è in espansione, le collaborazioni possono aumentare, variare, è un’esperienza aperta. Ognuno dei docenti apporta il suo contributo dal punto di vista professionale, artistico-culturale, ma anche per il proprio vissuto umano.
“Libera” dai vincoli che hanno le altre università. E “sulla Persona in Armonia”, proprio perché il centro è la persona. Tutti i percorsi che proponiamo hanno alla base gli strumenti dell’arte dell’attore, che sono anche mezzi di crescita per le persone: il canto, l’uso della voce, l’uso del corpo, il lavoro sulle azioni fisiche, la scrittura autobiografica, l’analisi storica e antropologica del teatro. Sono tutti elementi che impongono per gli attori un lavoro su di sè. Dalla cura per l’arte si arriva alla cura per la persona.
Ci sono diversi progetti che vedono protagonista il canto e una certa idea di “liturgia”, di un “servizio per il popolo”, progetti come il coro Ribeltà, lo stesso progetto Liturgia e il vostro spettacolo Armonie dai confini dell’ombra…
Domenico Castaldo: Ribeltà, Armonie dai Confini dell’Ombra e Liturgia sono frutto di studio attorno a un bisogno. Esattamente come in qualsiasi laboratorio che da un’indagine scientifica capisce che c’è più bisogno di una cosa rispetto ad un’altra…
Tutte e tre queste proposte sono legate al canto… Il motivo per cui usiamo il canto implicherebbe una spiegazione molto estesa. Diciamo che è un modo per portare una scenografia, un testo, una colonna sonora dentro di noi. Cinque persone possono portare uno spettacolo e farlo dovunque. Inoltre cantare in gruppo impone un lavoro molto profondo su noi stessi, impone uno studio evoluto dell’arte dell’attore: usare la voce per cantare implica un livello di comunicazione che va oltre il dire il testo, muoversi e cercare di essere attraenti…
Questi tre progetti hanno in comune la relazione tra chi canta ed il partecipante.
Armonie dai Confini dell’Ombra è l’esperienza in cui siamo arrivati più in là dal punto di vista musicale e di espressione con la voce; è un inizio e da lì parte (mi pare d’intuire) un cammino infinito. Chi viene a vederlo (lo apriamo a piccoli gruppi di 20-30 persone a replica) è invitato a cedere alle resistenze, al costante bisogno di attività e prestazione. Non è dunque invitato a cantare; qualcuno l’ha fatto, però presto ha smesso perché si rende conto che è meglio farsi portare, la complessità dei canti è molto articolata per poter partecipare.
Tutto diverso in Liturgia, dove le persone partecipano attivamente, fisicamente, entrano in questo rituale in cui noi cantiamo con loro per un’ora, due ore…finché ce la facciamo. Ognuno degli attori del LabPerm guida un gruppo mentre la mia funzione è di coordinazione generale, e si cerca di “far bollire” l’energia comune. Ognuno di noi è come una pietra calda che si mette accanto a pietre più fredde, meno abituate a bollire cantando e lentamente cerca di infondere questo calore, questa attività. A volte capita che per lunghi minuti numerosi gruppi di persone sconosciute tra loro, cantino in grande armonia e questo è il piccolo miracolo.
In Liturgia le proposte vengono dal LabPerm, in Ribeltà (che nasce da un principio simile), invece, si lavora sulle proposte delle persone che partecipano. E’ una sfida diversa che nasce da una grande fiducia nella tecnica. Il partecipante propone un canto (che spesso non conosciamo) e viene arrangiato da un coro di voci. L’obiettivo di Ribeltà è offrire uno strumento creativo, ma anche evolutivo, che possa costruire una versione originale di qualsiasi canto, una versione adatta alla persona che lo ha proposto e al suo sentimento e bisogno di esprimerlo: gioia, rabbia, contestazione, bellezza, etc. Il sogno di Ribeltà è di diventare il coro cittadino, la via per cento, duecento o più persone di avere voce, di elaborare ed esprimere cantando quanto li opprime.
Qual è la vostra idea di teatro “popolare”?
Domenico Castaldo A me la parola popolo dà un’idea di umanità e semplicità, di unione, di persone legate da un intento, che sanno rispettarsi, che rispettano un’etica. Molto diversa dall’idea di nazione che nasce attorno al sentimento di paura, di difesa ed attacco. L’idea di popolo mi riporta ad un tempo di pace, un insieme operoso e sereno. Il popolare mi appare utile, concreto. L’idea di nazione mi dà invece l’idea di terrore. Oggi viene utilizzata la parola populismo che indica questo bisogno di irretire il popolo… è strano che non si usi la parola nazionalismo. Il teatro è luogo di condivisione, in cui, se si rispetta la prima funzione dell’arte, si riscopre l’origine popolare, una forma espressiva che nasce da esso e si rivolge ad esso. Anche ai re piaceva l’arte popolare, si pensi alla commedia dell’arte o al teatro elisabettiano. Questo perché l’arte popolare non può esimersi dall’essere un solido esempio di verità, umanità e talvolta di spiritualità. Esistono forme artistiche che hanno sviluppato un linguaggio specifico ed hanno avuto bisogno di essere riconosciute e decodificate per diventare poi popolari. La musica classica, ad esempio, non è nata come popolare; ora lo è, tutti possono accedervi e goderne. L’importante, per chi si occupa di cultura, è restare parte del popolo; è popolo anche il re, il presidente, il direttore, solo occupano un ruolo esclusivo e spesso amano suscitare l’invidia nelle masse. Noi proponiamo qualcosa in linea con la nostra umanità nella prospettiva di toccare un Sé comune, collettivo. E’ una lotta importante, che impone il confronto con molte discipline, tutte quelle che si occupano del macro attraverso il micro.
Non mancano nuove produzioni e appuntamenti…
Natalia Sangiorgio: recentemente siamo stati presenti a Biennale Democrazia di Torino con una conferenza spettacolo – sempre a San Pietro in Vincoli Zona Teatro – alla quale abbiamo invitato un griot del Burkina Faso, Dibalo’n Dao, che ha portato alcuni suoi canti e ci ha parlato della realtà dei griot e della necessità per cui lui stesso lotta: accompagnare gli individui in un processo di crescita personale, dall’infanzia all’età adulta. Nella tradizione dei griot vengono compiuti riti di iniziazione, dalla nascita di ogni bambino, di 7 anni in 7 anni, per accompagnarli e indicare loro la strada. Il canto e la danza hanno un ruolo centrale in questo. E dato che è una tradizione che si sta perdendo, ci sono sempre più giovani africani persi. Noi vediamo qualcosa in comune con i giovani europei e non solo… quindi è un tema doppiamente interessante per noi. La sua esperienza è stata accostata a quella dello psicologo Danilo Berteotti che studia qui in Italia attorno ai riti di iniziazione. Il nostro ruolo è stato quello di cerimonieri della serata con i nostri canti.
Anche la nostra Liturgia! è stata inserita all’interno di Biennale Democrazia.
Il primo aprile, invece, inizia un master professionalizzante per attori, aperto ai minori di 30 anni. Si intitola Tragodìa, ed è il primo step per un progetto di studio sul dionisiaco e sul preverbale che sforcerà in una nostra nuova produzione nel 2021.
