ADRIAN PACI – ALTROVE UMANO GEOGRAFICO
Autore|Author: Giulia DeVal
Il mondo dell’arte si divide tra quelli che parlano di Adrian Paci, pronunciando la “c” italiana, e i puntigliosi che rispettando la fonetica albanese sostituiscono la “c” con il suono della “z”.
La critica internazionale concorda però nel riconoscergli, dopo vent’anni, un ruolo da protagonista assoluto nel panorama contemporaneo. Devono ritenersi molto fortunati quindi gli studenti della NABA di Milano che lo hanno nel loro corpo docenti. Come scrive Paola Nicolin in She, un volumetto che affronta il lavoro dell’artista partendo dalla figura femminile, la ricerca di Paci “ha offerto una visione poetica delle problematiche trasformazioni cui sono andati incontro i paesi dell’ex blocco sovietico dopo la caduta del Muro di Berlino. […] Agli esordi della sua carriera Paci ha prodotto un corpus di opere influenzato dal clima culturale di quegli anni, all’interno del quale il tema dell’immigrazione e dei repentini cambiamenti socio-politici della contemporaneità sono stati trattati ricorrendo a immagini che si palesano agli occhi dello spettatore come incontri. Tali immagini si riconnettono in modo organico alle vicende storiche. Esse tuttavia non vengono mai appiattite e mai considerate esclusivamente alla stregua di un repertorio iconografico da cui attingere in maniera acritica. Al contrario, la fascinazione di Paci per la narrazione e il racconto – e la propensione dell’artista verso la scelta di aspetti marginali dell’esistenza, carichi di energia e risvolti emotivi – è il punto di partenza per la messa in scena di vicende umane sempre complesse, dove il folklore e la tradizione si mescolano alla fiaba, alla lirica e alla fiction cinematografica. A partire da un nucleo tematico nel quale autobiografia e storia si sovrappongono, l’artista ha poi ampliato i confini reali e metaforici del proprio lavoro, giungendo a un’esplorazione di carattere universale sui temi della perdita, del movimento delle persone nello spazio e nel tempo, della ricerca di un altrove umano e geografico”.[1]
Possiamo parlare, per Paci, di una pratica di slittamento tra un’enorme vastità di tecniche padroneggiate sapientemente (disegno, pittura, fotografia, video, scultura, legno, terracotta, marmo, tela), ma non siamo in un orizzonte sperimentale e intermediale. Gli studenti delle accademie albanesi non hanno potuto infatti incontrare questi linguaggi prima del crollo del regime negli anni ’90, la dittatura di Enver Hoxha. In questo cupo clima culturale si formano nella stessa città, Scutari, due artisti che riusciranno poi a trovare spazio nella scena contemporanea, Adrian Paci e Driant Zeneli, di qualche anno più giovane.
Quando questa condizione abbia direzionato Paci possiamo leggerlo dalle sue stesse parole.
“Spesso nei miei lavori mi interessava rimanere nell’enigma del tempo e nello spazio: tutto si svolge in un contesto preciso e concreto, ma allo stesso modo le scene mantengono una dimensione astratta. Tutto questo credo debba essere valutato anche alla luce della mia educazione classica, che mi ha fatto amare maestri quali Giotto, Piero della Francesca, Masaccio. Quando studiavo in Albania c’era il Realismo socialista; e di fronte a queste opere sentivamo una carica metafisica che noi come giovani artisti cercavamo di mantenere nei nostri lavori. Tra i miei pittori preferiti c’erano Chagall e Klee. È in loro che leggevo lo spirituale. Uno dei libri che avevo nascosto e letto era d’altro proprio Lo spirituale nell’arte di Kandinsky. Per la mia generazione era una specie di trasgressione al Realismo, ovvero l’arte di propaganda. Penso che queste opere siano la testimonianza che il rinnovamento è fonte di un nutrimento, se non religioso, senza dubbio interiore e di sicuro non formale. In questo senso penso che certi tentativi di aggiornare il linguaggio solo attraverso la forma siano fallimentari. Il rischio è di renderlo decorativo. […] Non sono mai interessato ad abbellire con forme contemporanee. Uno degli obiettivi che mi prefiggo è “togliere” dettagli alla narrazione che scelgo di affrontare. Tento di creare un vuoto che sia uno spazio da lasciare per un possibile sviluppo futuro. Anche la scelta del video che si annulla nella decisione di fermarsi a un frame, è un tentativo di alludere a una dimensione di un attimo, che mantiene la memoria di quello che c’era prima e che può venire dopo. I miei lavori nascono d’altronde come storyboard. Sono stazioni che alludono a uno sviluppo, che sei invitato a riempire con il tuo sguardo”.[2]
Quello che non possiamo fare a meno di notare in queste righe, come elemento soggiacente e permeante tutta l’opera di Paci è l’idea/esperienza del transitorio: l’attitudine nei confronti delle tecniche artistiche, la tras-migrazione, sembra aderire perfettamente al vissuto. Non a caso, il titolo scelto da Paola Nicolin e Alessandro Rabottini nel 2014 per la personale di Paci al PAC di Milano è proprio Vite in Transito.
È in occasione di questa esposizione che The Column viene presentata per la prima volta in Italia. Emerge forte in quest’opera il tema dello spostamento delle masse e anche il confronto tra l’Oriente e l’Occidente. Qui la colonna, simbolo della classicità e della pittura sacra (si pensi a iconografie come il San Sebastiano alla colonna), diventa il pretesto per una riflessione sulla delocalizzazione del lavoro e la trasformazione delle tradizioni. Nell’opera Paci usa molteplici linguaggi la scultura, ma soprattutto la fotografia e il video.
Il processo di Paci è stato quello di commissionare a un laboratorio marmista di Pechino una colonna in stile corinzio che gli è stata poi spedita via nave. Successivamente, il viaggio del manufatto è continuato durante l’esposizione itinerante, tra Francia, Canada e Italia (PAC) assieme a un film che ritrae gli operai durante le fasi della lavorazione: dall’estrazione del blocco di pietra alla cava, fino alla rifinitura eseguita a bordo di una speciale nave-officina.
Quello di Paci è un epos contemporaneo che vuole narrare l’uomo e il suo viaggio, nel caso della colonna si tratta di un viaggio reale, così come quello (impossibile) di Centro di Permanenza Temporanea (2007) in cui vediamo un gruppo di uomini in marcia verso un aereo inesistente pronto a decollare.
Ci sono però altri viaggi che Paci vuole narrare, i viaggi dell’individuo, con una particolare attenzione al contesto delle tradizioni familiari e popolari. I materiali per questa indagine sono spesso footage tratti da video privati, film tv o d’archivio.
È proprio la figura femminile, su cui è incentrato il libro della Nicolin, la grande protagonista di queste opere, “figura sia nel senso etimologico della parola, come derivato dal latino figura, ‘formazione plastica’, sia in relazione al concetto stesso secondo l’esegesi cristiana medievale per la quale la figura è il fatto storico, concreto, che ne preannuncia un altro, altrettanto concreto”.[3]
Questa figura è al centro di The Wedding o di Façade, serie di opere pittoriche realizzate con supporti e tecniche diversi legati alle celebrazione dei matrimoni in Albania. Il viaggio della donna, che esce dalla casa del padre per andare in quella del marito viene osservata nei suoi caratteri antropologici ed etnografici.
Ci accorgiamo di come la donna sia l’anello di congiunzione tra la sfera privata e quella pubblica, la donna guardata come lo scrigno di un mistero: madre, figlia, moglie, nipote, vedova, nonna, sacerdotessa, prostituta, ammaliatrice ed educatrice, “contenitore di tutto ciò che nella transizione dei ruoli si perde, si dimentica, si sublima, si cancella”.[4]
La dimensione privata emerge con forza in Albanian Stories, in cui vediamo filmata Jolanda, la figlia di tre anni, che racconta dall’Italia una fiaba legata al folklore albanese. Ad un certo punto però, ai personaggi immaginari del racconto si unisce un gruppo di attori dal mondo reale che raccontano della guerra e della situazione politica albanese, arrivando all’estetica del documentario.
Molte altre le opere significative di cui potremmo parlare: Vajotica (2002), Turn On (2004), PilgrIMAGE (2005), Electric Blue (2010).
Che si tratti del viaggio di una massa o del viaggio di un singolo, la storia della pittura però ritorna sempre, si infiltra nelle narrazioni del quotidiano proponendo immaginari e atmosfere, ma anche il cinema diviene un serbatoio a cui attingere e in particolare quel cinema che cita la pittura, chiudendo il cerchio. Tra i registi con cui Paci si è confrontato ci sono Michelangelo Antonioni, Bela Tarr, ma soprattutto Pasolini. Secondo Pasolini (Decameron, 2007), è una serie di gouache montate su tela e i Racconti di Canterbury sono una serie di pitture su legno.
Tras-migrazioni continue quindi: tra le diverse tecniche, tra la memoria personale e quella collettiva.
È questo il cuore delle opere di un artista migrato, ormai molti anni fa, dalla costa albanese alla scena dell’arte contemporanea italiana e in seguito internazionale, un artista che meglio di altri ha saputo mostrare un altrove umano e geografico e istituendo con il pubblico un contatto vero, come nella sua performance The Encounter (2011) in cui ha stretto ad una ad una le mani di tutti i presenti.
[1] In Paola Nicolin, She. La figura femminile nel lavoro di Adrian Paci, “Il punto Miart”, Johan&Levi Editore, Milano, 2014, p.7-8; il titolo She è tratto da un portfolio di sedici incisioni di Adrian Paci.
[2] Ivi, p.9-10.
[3] Ibid.
[4] Ibid.
The art world is divided between those that speak of Adrian Paci, pronouncing the Italian “c”, and the meticulous ones that respecting the Albanian phonetics and replace the “c” with the sound of the “z”.
The international critics, however, agree in recognizing to him, after twenty years, a role of absolute protagonist in the contemporary scene. NABA students of Milan who have Paci as a teacher must be considered very lucky. As Paola Nicolin writes in She (a book that speak about the artist’s work starting from the female figure) Paci’s research “offered a poetic vision of the problematic transformations that the countries of the Soviet bloc were facing after the fall of the Wall of Berlin. […] At the beginning of his career, Paci produced a corpus of works influenced by the cultural climate of those years, within which the theme of immigration and the sudden socio-political changes of the contemporary were treated using images which are revealed in the eyes of the spectator as meetings. These images are reconnected in an organic way to historical events. However, they are never flattened and never considered exclusively as an iconographic repertoire from which to draw uncritically. On the contrary, Paci’s fascination with storytelling – and the artist’s inclination towards the choice of marginal aspects of existence, full of energy and emotional implications – is the starting point for the staging of human events always complex, where folklore and tradition mix with fairy tales, opera and film fiction. Starting from a thematic nucleus in which autobiography and history overlap, the artist has then expanded the real and metaphorical boundaries of his work, reaching a universal exploration of the themes of loss, of the movement of people in space and in the time, the search for a human and geographical elsewhere”.[1]
We can talk, for Paci, about a practice of slipping between a huge variety of expertly mastered techniques (drawing, painting, photography, video, sculpture, wood, terracotta, marble, canvas), but we are not in an experimental and intermediary horizon. The students of the Albanian academies were unable to meet these languages before the collapse of the regime in the 1990s, the dictatorship of Enver Hoxha. In this gloomy cultural climate, in the same city, Shkoder, two artists were able to emerge in contemporary scene, Adrian Paci and Driant Zeneli, a few years younger.
We can read the condition in which Paci lives in his own words.
“Often in my works I was interested in remaining in the enigma of time and space: everything takes place in a precise and concrete context, but in the same way the scenes maintain an abstract dimension. All this I believe must also be evaluated in the light of my classical education, which made me love masters such as Giotto, Piero della Francesca, Masaccio. When I was studying in Albania there was Socialist Realism; and in the face of these works we felt a metaphysical charge that we, as young artists, tried to keep in our works. Among my favorite painters were Chagall and Klee. It is in them that I read the spiritual. One of the books that I had hidden and read was The spiritual in art by Kandinsky. For my generation it was a kind of transgression of Realism, the art of propaganda. I think these works are the testimony that renewal is the source of a nourishment, if not religious, without doubt an internal one, and certainly not a formal one. In this sense I think that certain attempts to update the language only through the form are unsuccessful. The risk is to make it decorative. […] I’m never interested in embellishing with contemporary forms. One of the goals I set myself is to “remove” details from the narrative I choose to tackle. I try to create a void that is a space to leave for a possible future development. Even the choice of the video that is annulled in the decision to stop at a frame, is an attempt to allude to a dimension of a moment, which keeps the memory of what was there before and that can come later. On the other hand, my works are born as storyboards. These are stations that allude to development, which you are invited to fill with your gaze”.[2]
What we can not help but notice in these lines, as an underlying element and permeate all of Paci’s work is the idea / experience of the transit: the attitude towards the artistic techniques, the tras-migration, seems to adhere perfectly to his life. It is no a coincidence that the title chosen by Paola Nicolin and Alessandro Rabottini in 2014 for Paci exhibition at the PAC in Milan is precisely Vite in Transito (“Lifes in Transit”).
It is in this occasion that The Column is presented for the first time in Italy. The theme of the movement of the masses and also the comparison between the East and the West emerges strongly in this work. Here the column, a symbol of classicism and sacred painting (for example in the iconography such as San Sebastiano alla colonna), becomes the pretext for a reflection on the delocalization of work and the transformation of traditions. In this work Paci uses multiple languages: sculpture, but above all photography and video.
Paci’s process was to commission a marble-style column from a marble workshop in Beijing, which was then sent to him by ship. After that, the journey of the artefact continued during the traveling exhibition, between France, Canada and Italy (PAC) together with a film depicting the workers during the processing phases: from the extraction of the stone block to the quarry, to the finishing performed on board a special ship-workshop.
Paci’s work is a contemporary epos that wants to narrate the man and his journey, in the case of the column it is a real journey, as well as the (impossible) journey of Centro di Permanenze Temporanea (2007) in which we see a group of men marching towards a non-existent plane ready to take off.
But there are other journeys that Paci wants to narrate, the journeys of the individual, with particular attention to the context of family and popular traditions. The materials for this survey are often footage taken from private videos, TV movies or archives.
It is precisely the female figure, on which Nicolin’s book focuses, the great protagonist of these works, “figures both in the etymological sense of the word, as derived from the Latin figure, ‘plastic formation’, and in relation to the concept itself according to the medieval Christian exegesis for which the figure is the historical fact, concrete, which preannounces another, equally concrete”.[3]
This figure is at the center of The Wedding or Façade, series of pictorial works made with different supports and techniques related to the celebration of marriages in Albania. The journey of the woman, who leaves her father’s house to go to her husband’s, is observed in anthropological and ethnographic features.
We realize that the woman is the link between the private sphere and the public, the woman looked like the casket of a mystery: mother, daughter, wife, nephew, widow, grandmother, priestess, prostitute, charmer and educator, “container of everything that in the transition of roles is lost, forgotten, sublimated, erased”.[4]
The private dimension emerges strongly in Albanian Stories, in which we see filmed Jolanda, the three-years-old daughter, who tells from Italy a fairy tale linked to the Albanian folklore. At a certain point, however, the imaginary characters of the story are joined by a group of actors from the real world who tell about the war and the Albanian political situation, coming to the aesthetics of documentary.
We could talk about many important works: Vajotica (2002), Turn On (2004), PilgrIMAGE (2005), Electric Blue (2010).
Whether it’s the journey of a mass or the journey of an individual, the history of painting, however, always returns, infiltrates the narratives of everyday life by proposing imagines and atmospheres, but also the cinema becomes a reservoir to draw on and, in particular, the cinema that he cites painting, closing the circle. Among the directors with whom Paci was confronted there are Michelangelo Antonioni, Bela Tarr, but especially Pasolini. Secondo Pasolini (Decameron, 2007), it is a series of gouache mounted on canvas and Racconti di Canterbury are a series of paintings on wood.
Continuous trans-migrations therefore: between the different techniques, between personal and collective memory.
This is the core of the works of an artist who migrated, many years ago, from the Albanian coast to the scene of Italian contemporary art and later international contemporary art; an artist who has been able to show a human and geographical elsewhere and establish with the public a real contact, as in his performance The Encounter (2011) in which he has held one by one the hands of everyone partecipant
[1] (my translation) In Paola Nicolin, She. La figura femminile nel lavoro di Adrian Paci, “Il punto Miart”, Johan&Levi Editore, Milano, 2014, p.7-8; She is also the title of a portfolio of 16 etchings by Adrian Paci.
[2] Ivi, p.9-10.
[3] Ibid.
[4] Ibid.
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Giulia DeVal è una giovane artista che ricerca il suo linguaggio tra le arti visive e la musica sperimentale, concentrandosi in particolare sulla relazione tra voce e oggetto. Dopo la laurea, appena conseguita presso l’Università di Bologna in Discipline della Musica e del Teatro, continua la sua ricerca teorica volta allo studio di performance ibride e alle connessioni tra il teatro d’oggetto e la scena noise europea.