Il binomio ordine e caos può avere un’altra faccia nel mondo delle nuove tecnologie e delle arti digitali: l’imprevedibilità della macchina con e contro la precisione dei suoi algoritmi. Questo è ciò su cui riflette Giovanni Muzio / Kesson utilizzando processi come la Generative Art e le Neural Networks. La sua è una ricerca multiforme che si declina in diversi formati installativi e audiovisuali, passando per il live coding e il cortometraggio; è una ricerca che, riflettendo sui meccanismi di raccolta e rielaborazione dei dati, si interroga soprattutto su gli impatti sociali dei paradigmi introdotti dai nuovi media.

Leggendo il tuo statement incontro due concetti che aprono mondi, mi riferisco a “Generative Art” e “Neural Networks”. Puoi raccontarci nello specifico di cosa si occupano questi due ambiti e come si connettono al tuo lavoro?

GM: Per “Generative Art” si intende qualsiasi tipo d’arte creata da un sistema autonomo, un sistema cioè che possa funzionare indipendentemente (diversamente da altri metodi che richiedono esplicitamente le decisioni dell’artista), divenendo così altamente imprevedibile.

“Neural Networks” (Reti Neurali) si riferisce a una rete di percettroni (neuroni, in questo caso artificiali). Si tratta di una parte fondamentale delle ricerche portate avanti sul Machine Learning, e più in grande nello sviluppo delle intelligenze artificiali. Esistono innumerevoli algoritmi in questo senso, per svariati scopi, e molti artisti ne studiano la parte creativa/estetica. Io mi concentro sugli algoritmi generativi (GAN – Generative Adversarial Network), una classe di algoritmi in cui due reti neurali “competono” l’una contro l’altra in un gioco, confrontandosi a vicenda nell’apprendimento di un set di dati. In pratica, dando un dataset alla macchina, essa ne restituisce una sua interpretazione, fino ad arrivare alla generazioni di immagini praticamente identiche a quelle del set (ad esempio, dando un set di fotografie di tramonti, la macchina genererà delle foto di tramonti, ovviamente inesistenti).

Questo si allaccia molto alla mia ricerca principale del bilanciamento tra ordine e caos, l’imprevedibilità della macchina con la precisione dei suoi algoritmi. In questo senso, sto portando la mia ricerca nell’imperfezione di tali interpretazioni, cercando il giusto bilancio dei dati da cui la macchina impara, per vederne delle interpretazioni che sembrino venire direttamente da viaggi onirici, mondi paralleli in cui la relazione tra gli uomini e la natura (ad esempio) è una simbiosi trans-naturale imperfetta, visioni astratte che pongono anche importanti questioni riguardo al rapporto stesso che ha l’uomo con la natura e il mondo in cui vive.

Dalla moltitudine di pratiche e formati che ti abbiamo visto usare (dall’installazione al video musicale, dal live coding al cortometraggio) si direbbe che le combinazioni possibili tra l’estremamente progettato e il caos siano infinite. Che peso hanno questi due concetti nel tuo lavoro? In quale lavoro hai spinto più l’acceleratore su una progettazione estrema e in quale sul dato aleatorio?

GM: Come ho accennato prima, la mia ricerca principale verte sul rapporto tra ordine e caos, così come il rapporto tra vuoto e caos (caos in questo caso inteso non come aleatorio, ma come spazio beante da dove le cose sono generate, riferendosi alla mitologia greca). Questo rapporto, che si rifà anche al rapporto tra pieni e vuoti nel Taijitu, mi porta a investigare qualsiasi strumento a mia disposizione, perché deve essere il fine a giustificare il mezzo, e non l’opposto. Poi per me è anche stimolante poter investigare qualsiasi mezzo di espressione, capirne i pregi e i difetti e che impatto possano avere nella vita di tutti i giorni e anche a livello sociale. Questo processo mi porta ad avere una componente generativa in ogni mio progetto, anche in quelli con una progettazione estrema. Credo però che il progetto con una verve maggiormente aleatoria sia Liquid Dreams, che è una serie di lavori con l’utilizzo di reti neurali su diversi dataset. Nello specifico, una versione modificata da me dell’algoritmo StyleGAN, inizialmente sviluppato da Tero Karras, Samuli Laine, Timo Aila, nei laboratori Nvidia. In questo caso, i dataset sono unici, e il risultato dei sogni della macchina vengono poi processati da un ulteriore algoritmo che fluidifica queste immagini, rendendoli liquidi ed intangibili. L’imprevedibilità degli algoritmi della rete neurale viene aggiunto all’imprevedibilità dell’algoritmo che ne simula la fluidificazione, in un rapporto esteticamente bilanciato ed astratto tra macchina e natura. Il primo progetto, con i risultati di un training basato sui dati delle nebulae della galassia, venne presentato su FRAMED* (una piattaforma per videoartisti) ed è stato esibito in giro per il mondo (Taiwan, Giappone, Stati Uniti, Paesi Bassi). Ogni volta che viene presentato, il risultato è dunque diverso ed imprevedibile.

Le pratiche multimediali sono forse quelle che più di tutte portano a situazioni collaborative / collettive. Quali collaborazioni sono o sono state fondamentali per te?  

GM: Importantissimo durante la mia formazione il gruppo mediaintegrati, ma in realtà tutto il laboratorio di Nuove Tecnologie dell’Arte dell’Accademia di Belle Arti di Napoli. Là ho passato gli anni della mia più grande formazione da artista, e ho conosciuto un mondo fino ad allora per me inesplorato. Ho stretto intense relazioni con gli altri del collettivo e abbiamo condiviso degli anni straordinari, esperienze che hanno contribuito molto al mio sviluppo da individuo prima di tutto, e da artista.

Poi finita l’esperienza (durata ben 6 anni) di mediaintegrati, ho avuto modo di avere molte altre collaborazioni. Le nuove tecnologie ci permettono di essere in contatto in tempo reale con persone che vivono dall’altre parte del mondo, e in questo periodo di pandemia abbiamo assistito a questa cosa più che mai: non solo grandi (e piccole) aziende hanno capito che si può lavorare/collaborare a distanza, ma le relazioni a distanza sono diventate più intense, così come abbiamo avuto modo di comprendere quelle vicine più in profondità e dargli più valore. In questo periodo sto collaborando ad un progetto con l’IRCAM di Parigi (Institut de Recherche et Coordination Acoustique/Musique), con Giulia Lorusso e Benjamin Levy su un progetto audiovisuale che sarà lanciato come applicazione web, ma verrà prima rappresentato come performance (si spera a novembre, ma con la pandemia in atto stiamo ancora cercando di capire come possa funzionare).

Altre collaborazioni di vario genere le ho con la mia partner Constanza Bizraelli, e capita a volte di lavorare a progetti audio-visual insieme (a febbraio abbiamo pubblicato un video, lei ha composto la musica, parte di un EP lanciato stesso a febbraio, e io il video), o che io contribuisca al suo giornale di filosofia (sito web e grafiche varie – il titolo è Cyclops Journal).

Per il resto, ogni giorno si iniziano e finiscono nuove collaborazioni, e non tutte funzionano purtroppo. Ma il tentativo è utile perché come si dice, tentar non nuoce, e stringere nuove relazioni non può fare che bene.

Quali pensi possano essere gli impatti sociali dei paradigmi introdotti dai nuovi media?

GM: Da artista e ricercatore, ogni giorno cerco di capire l’utilizzo di nuovi strumenti, nuovi media da un punto di vista sociologico e antropologico, per poter meglio comprendere il mondo in cui viviamo.

Stiamo vivendo un passaggio epocale: lo scorso decennio abbiamo assistito ad un radicale cambiamento del nostro modo di comunicare, di gestire le relazioni e di incontrare nuove persone. Se durante questi tempi di pandemia il distanziamento sociale ci ha fatto rendere conto dell’importanza delle relazioni vicine e dello stare insieme, ci ha anche fatto comprendere delle potenzialità di quelle a distanza, come ad esempio il lavoro da remoto, fino a poco tempo fa concetto inesistente. Affidandoci ad algoritmi di compressione, possiamo entrare in un portale di onnipresenza rizomatica senza limiti di spazio o luogo. Stessi algoritmi che plasmano il nostro io digitale, un avatar che ci conosce meglio di chiunque altro, copie di noi stessi a cui ci affidiamo ciecamente come se fossero sciamani per interpretare il mondo in cui viviamo. Un enorme accumulo di dati che conosce esattamente i nostri pensieri e i nostri bisogni e che invochiamo come divinità (alle parole per esempio “OK Google” o “Ciao Alexa”), a cui chiedere assistenza (dalla strada più rapida per raggiungere un luogo a consigli sugli acquisti su Amazon). Una semplificazione della nostra vita quotidiana benvenuta, a patto che accettiamo i termini di servizio.

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