| Autore: Michele Palozzo |

Già nella sua fase originaria, a metà degli anni sessanta, il collettivo AMM presentava alcuni tratti tipici di una congrega settaria: i compositori/esecutori riuniti sotto tale acronimo (mai disvelato con esattezza) non soltanto stabilirono di andare in scena o in studio senza provare alcunché, ma prima e dopo ciascuna sessione non lasciarono spazio a commenti costruttivi od opinioni personali sulla riuscita o meno della performance.
Così, sulla scorta della scuola newyorchese di John Cage e del movimento Fluxus, la compagine britannica faceva piazza pulita dei concetti di giusto o sbagliato nell’arte, ripudiando l’accademismo e abbracciando risolutamente la più completa istintività. La spinta rivoluzionaria del pioniere Cornelius Cardew fu, in questo senso, assolutamente determinante: la sfida all’egemonia capitalista che costituì il suo inscalfibile credo ideologico e politico non poteva che manifestarsi anche nella sua intensa attività musicale, almeno fino ai primi anni settanta, quando giunse a riconsiderare la sua stessa idea di musica libera, secondo lui divenuta elitaria anziché accessibile a tutti.

I primi esiti di AMM furono fragorosi, quasi Futuristi nella loro irruenza sovversiva: ancor più che nel visionario esordio “AMMMusic” (1966), nel proto-noise dell’incisione live “The Crypt”, datata al 1968 ma edita soltanto nel 1981 dall’etichetta Matchless di Eddie Prévost, percussionista e unico membro inamovibile del collettivo. Eppure, qualora non se ne fossero seguiti gli sviluppi nei decenni seguenti, oggi sarebbe impossibile riconoscere l’impronta di quegli stessi musicisti nelle sonorità che ancora rappresentano: un’espressione vieppiù “muta”, in sempre maggior rapporto con il silenzio anziché coi suoni, non più veicolati in forma alterata ed esplicita sino alla cacofonia, ma “attesi” con infinita pazienza, quasi estratti a fatica dagli interstizi, apparentemente plasmati da un nulla ancestrale.

Per molto tempo, tra gli anni ottanta e i primi Duemila, il nucleo stabile di AMM ha contato soltanto tre componenti: Eddie Prévost, Keith Rowe e John Tilbury. Come vedremo, sarà un disaccordo interno tra i primi due a far sì che nel 2004 Rowe abbandoni la formazione, troncando un sodalizio musicale durato quasi quarant’anni. “Norwich”, registrato dal vivo ed edito nel 2005, sarà la prima pubblicazione a quattro mani della sigla, di cui Prévost e Tilbury rimarranno i soli accoliti permanenti nella decade seguente.
In prossimità di questa delicata fase di transizione era già entrata in scena una figura chiave, a posteriori davvero fondamentale per gli sviluppi futuri dei progetti legati ai membri storici: l’americano Jon Abbey, fondatore e direttore artistico di Erstwhile Records, dedito non soltanto alla produzione di dischi ma anche all’ideazione stessa di varie situazioni improvvisative che in seguito avrebbero trovato posto nel suo singolare catalogo.

Grazie al suo mirato spirito d’iniziativa e alla collaborazione di Massimo Simonini, allora direttore festival AngelicA di Bologna, il 20 maggio 2001 ebbe luogo la performance intitolata “The Hands of Caravaggio”, che vide uniti sul palco l’orchestra elettronica MIMEO (Music In Movement Electronic Orchestra) e John Tilbury, in quello che Brian Olewnick ha poi definito “il primo grande concerto per pianoforte del ventunesimo secolo”. [1] Un evento che, nonostante il memorabile e acclamato esito finale, sin dalle prove di gruppo non partì sotto i migliori auspici. Di fronte al palco già allestito con le strumentazioni analogiche e digitali dell’ensemble, Tilbury dichiarò: “In un secondo potrete eliminarmi per sempre”; al che lo sperimentatore francese Jérôme Noetinger controbatté sarcasticamente: “In meno di un secondo”. Si tratta soltanto del preludio a un’annosa controversia che avrebbe avuto ripercussioni a lungo protrattesi tra i membri storici di AMM.

La successiva testimonianza di Olewnick, che prese parte al concerto ed ebbe un malaugurato scambio d’opinioni con Rowe, indusse Tilbury a credere che la sua performance fosse stata “sabotata” da Cor Fuhler, presumibilmente su indicazione dello stesso Rowe, che lo avrebbe istruito affinché intervenisse sulle corde del pianoforte qualora Tilbury fosse caduto negli “automatismi” dell’interpretazione feldmaniana – sequenze di note e intervalli che contraddistinguono anche il suo operato con AMM.
Sul mensile Wire il critico John Cratchley scrisse che “essere soggetto a una manipolazione sonora istantanea dev’essere stata, per Tilbury, un’esperienza fisicamente disorientante e prossima allo stupro intellettuale”. Anche Eddie Prévost prese da subito le parti del compagno pianista, attaccando l’arrogante iniziativa di Rowe, portando a un’ulteriore e decisiva frattura nel collettivo, già da tempo segnato da sensibili divergenze ideologiche.


Duos For Doris, Erstwhile Records, 2003

Nonostante i dissidi annidati tra i membri della formazione, la forte iniziativa curatoriale di Jon Abbey lo portò a immaginare diverse possibili combinazioni tra questi e numerosi altri protagonisti dell’avanguardia e dell’improvvisazione elettroacustica internazionale: una sorta di gotha personale che, a conti fatti, ha realmente imposto Erstwhile come una delle etichette di riferimento per alcune tra le espressioni sonore più audaci del nuovo millennio. Così il fautore racconta la travagliata genesi del primo duo firmato Rowe/Tilbury:

Ero intenzionato a creare una sotto-serie dedicata a gruppi con l’aggiunta di un collaboratore particolarmente importante, da [i numeri di catalogo] 021-024. Ne ho realizzati tre (021-023) e lo 024 avrebbe dovuto essere AMM con Christian Wolff oppure con Evan Parker. Se ne discuteva durante un tour di AMM nel Nord-est degli Stati Uniti (circa 2002) e ho preso parte a più concerti che potessi per provare a fissare l’idea che avevo in mente per Erstwhile. Li ho visti suonare a Baltimora, in una classe a Dartmouth con Wolff, a Bard, e poi in quattro set a New York. Dopo i primi due era chiaro che se anche quei concerti si fossero verificati, sarebbero stati pubblicati da Matchless, non Erstwhile. “Ok, pazienza, ci ho provato…”

Nel tempo ci furono parecchie discussioni e disaccordi a riguardo, prima e forse durante il tour. L’esibizione a Bard era la successiva, e a metà del set ho pensato: “Se Eddie non consentirà aggiunte alla formazione, perché non sottrarre?”. Così dopo il concerto, quando Keith e John erano da soli, ho detto loro: “Ho un’altra idea”. E qui viene la parte più bella, perché sulla scorta di tutto quello che avevamo passato per mesi in seguito alla mia ultima idea legata ad AMM, la reazione immediata di Keith è stata di sporgersi verso di me e, scherzando solo a metà, mi ha coperto la bocca.

Questa incisione [“Duos For Doris”], forse più di ogni altra, è un miracolo che sia successa: per essa ho dovuto recarmi in Europa due volte, prima a Londra per ottenere il permesso di Eddie (ci sono riuscito) e poi a Nancy per le registrazioni. Non pensavo che la seconda fosse essenziale – volevo soltanto essere presente – ma a causa delle tristi circostanze credo che John avrebbe probabilmente annullato se Brian [Olewnick] e io non fossimo stati già in Francia.
[2]

Completa il quadro il racconto del summenzionato Olewnick, biografo di Rowe e ulteriore fonte primaria riguardo le vicende di quegli anni:

La session, predisposta da Jon Abbey per verificarsi a Nancy e implicante non poche difficoltà di natura logistica e personale, fu improvvisamente a rischio di non accadere del tutto a causa della grave malattia della madre di Tilbury. Un giorno di incertezza trascorse a casa di Rowe a Vallet, dopo la quale Tilbury telefonò dall’Inghilterra per riferire che sì, sua madre era venuta a mancare, ma che ci saremmo comunque incontrati a Parigi per poi spostarci a Nancy, un giorno più tardi del previsto. Il risultato è una registrazione che rimane all’apice della musica per il qui presente ascoltatore. [3]

Nonostante tutto, quindi, il 7 gennaio del 2003 Rowe e Tilbury si incontrano presso il CCAM (Centre Culturel André Malraux) di Vandœuvre-lès-Nancy per una sola giornata di registrazione – invece delle due inizialmente programmate –, equipaggiati con i loro strumenti d’ordinanza: un pianoforte e una chitarra elettrica con qualche effetto elettronico. “Hanno creato cinque pezzi lungo il corso di circa tre ore di esecuzione, tre dei quali sono stati scelti per questo doppio cd. Tilbury ha fatto riscaldamento suonando un po’ di Chopin, un po’ di Schoenberg e alcune canzoni popolari inglesi.” [4]

Duos for Doris” non è soltanto la prima scintilla di un dialogo artistico che, contro ogni aspettativa, si sarebbe poi riproposto a intervalli irregolari nel futuro – e nell’inesorabile avanzare di età anagrafiche già consistenti –: è l’atto fondativo che sancisce l’avvio di una nuova pratica performativa per i due decani della “scuola inglese”, l’ingresso in un sentiero che condurrà a esiti di sempre più radicale non-significazione. In tal senso “Cathnor” (il nome si riferisce forse alla via londinese in cui abitava la madre di Tilbury), coi suoi 70 minuti di durata, è al contempo un manifesto e la sua negazione, un atto di rinuncia espressiva il cui riverbero permane ancora oggi nel loro sporadico operato.

In prima battuta si fa strada un ronzio sottocutaneo, quasi un room tone generato dal feedback della chitarra, al quale si aggiunge il più concreto vibrare di un rasoio o di un piccolo ventilatore; i tasti e le corde del pianoforte sembrano assenti a loro stessi per i primi dieci minuti, dopo i quali vanno prendendo forma accordi affilati e dissonanti che disperdono risonanze naturali per un secondo appena, prima di essere riassorbiti dal grigio sfrigolio dell’amplificazione elettrica; in prossimità del ventesimo minuto hanno ormai l’aspetto di stilettate, ammorbidite poco dopo soltanto dalla calma sospesa degli accordi e delle sequenze ascendenti d’eredità feldmaniana.

In assenza, però, di un chiaro sviluppo drammatico – tra improvvise sollevazioni e susseguenti, lunghissimi rientri nei ranghi – è impossibile prevedere il momento in cui il brumoso paesaggio elettroacustico verrà d’un tratto scosso da un tormento indicibile, uno svuotamento subitaneo di tutta la tensione accumulata negli intervalli di note a malapena evocate. Quando sembrava ormai che il duo stesse eludendo completamente la mìmesis, la significazione sonora ed emotiva, d’un tratto il registro acuto della tastiera lascia emergere e poi violentemente sgorgare dal fondo dell’abisso tutto il dolore e l’afflizione di un addio ancora troppo vicino e impossibile da razionalizzare, la crudezza di un risveglio necessario a rivendicare l’umana fragilità di Tilbury, cui anche il sottile lamento monodico della chitarra di Rowe sembra poi rispondere in tono benevolo e confortante.
I restanti venticinque minuti circa sembrano voler adombrare e quasi negare la sofferta estasi di quel momento viscerale, tracciando segni leggeri in un terreno d’astrazione che si rifà prossimo all’assenza, attraversato qua e là da puntillismi sbiaditi e “cancellature” sul corpo inerte della chitarra, membra spogliate per sempre del sembiante che nel corso dei secoli ha accolto il richiamo delle muse.

La singolarità dell’evento non-musicale racchiuso nel primo cd si rende pienamente evidente soltanto nel contrasto col secondo: foriero di un interplay decisamente più dinamico e variegato, “Olaf” vede il duo ritornare alla nitidezza di alcuni elementi tipici della sua poetica, dalla dolce percussività del pianoforte preparato alle incursioni randomiche delle frequenze radio attivate da Rowe. Le ruvide increspature della chitarra si affacciano su di un basamento statico, un’onda corta che finisce per attraversare l’intera porzione della session, dove le timide progressioni di Tilbury sono l’ombra di un canto solitario e del tutto richiuso in se stesso, un lirismo greve e autoreferenziale che sembra inseguire le linee di un encefalogramma patologicamente discontinuo.
Con il segmento finale “Oxleay” la sospensione tonale e temporale mutuata da Morton Feldman si manifesta senza remore tra i tasti del piano, mentre la superficie afona della chitarra amplificata si comprime ulteriormente in un refolo di vento artificiale, corroso appena al limitare dei minuti finali, necessario tremito di presenza/assenza di un esecutore altrimenti rimasto stoicamente a margine del quadro.

Qualche tempo dopo Olewnick redasse un racconto della session per il sito Bagatellen, evidenziando quello che a suo parere era stata una nuova strategia di disturbo attuata da Rowe in questa circostanza: secondo lui il chitarrista avrebbe infatti prodotto dei rumori potenti e improvvisi laddove l’esecuzione di Tilbury si fosse fatta troppo aggraziata, troppo “romantica”. In seguito, anche sulla scorta della controversia relativa a “The Hands of Caravaggio”, il pianista avrebbe interpretato tale comportamento come l’ulteriore conferma di una “manipolazione e mania di controllo” ai suoi danni.

Riporta Abbey: “In seguito ho pubblicato [“Duos For Doris”] più veloce possibile, prima che John potesse decidere che anch’io divenissi parte del suo boicottaggio, e ho spedito le copie quattro mesi dopo la registrazione” [5]. Nel maggio dello stesso anno viene dunque dato alle stampe il doppio cd, destinato a rimanere una delle produzioni più iconiche e distintive del catalogo Erstwhile.

Tra la fine del 2003 e la prima metà del 2004 ebbero luogo gli ultimi concerti in trio come AMM: in novembre a Glasgow e in maggio a Londra, quest’ultima in formazione congiunta con MEV (Musica Elettronica Viva) – Alvin Curran ai sampler e alle percussioni, Frederic Rzewski al pianoforte e Richard Teitelbaum al sintetizzatore. Inoltre, il 4 marzo 2004, il duo Rowe/Tilbury si era esibito alla Holy Trinity Church di Leeds, il cui organo a canne consentì al secondo di sostenere toni continui che arrivarono a imitare le onde corte solitamente controllate da Rowe.

Ciò nonostante, “non molto tempo dopo [“Duos for Doris”] avvenne lo scioglimento di AMM, un’amara questione. Sembrava altamente improbabile che Rowe avrebbe più suonato con i suoi vecchi compagni. Nel 2008 la madre dello stesso Rowe, Eileen Elizabeth Charters-Rowe, morì. Venuto a sapere del fatto, Tilbury riprese contatto con lui e in seguito suggerì che, così come il primo duo finì per essere incentrato sulla morte di sua madre, forse avrebbero potuto ritrovarsi per onorare quella di Rowe. Per fortuna, tale evento ebbe luogo nel dicembre del 2010 al Les Instants Chavirés, locale situato nella banlieue parigina di Montreuil. [6]


E.E. Tension and Circumstance, Potlatch, 2011

Dopo sei anni di silenzio, di “fine trasmissioni” tra due ex colleghi e amici, la scomparsa di Eileen Rowe offre dunque l’occasione per un nuovo ricongiungimento artistico. Keith Rowe si era già esibito nel locale francese nel 1999, in trio con Taku Sugimoto e Günter Müller, la cui incisione aveva segnato l’inizio del proficuo rapporto con Jon Abbey (“The World Turned Upside Down”, Erstwhile, 2000).
Il clima di leggero spaesamento che ammanta l’evento è chiaramente percepibile anche nella registrazione: in particolare, quella del pianoforte è un’emersione dal buio rapida e nervosa, come le prime battute di una conversazione iniziata molto prima nella mente di Tilbury ma che ora si manifesta in frammenti sconnessi. Scrive John Eyles: “Non c’è un preambolo atto a ‘riprendere confidenza’, nessuna lotta per la supremazia e nessun imbarazzante ‘dopo di te’. Invece, ognuno fa quello che sa fare meglio, adattandosi apparentemente d’istinto al suonare dell’altro”. [7]

Poco dopo Tilbury comincia ad agire direttamente sulle corde del pianoforte aperto, mentre i ronzii, i cortocircuiti e gli sfregamenti prodotti da Rowe si fanno man mano più improvvisi e percettibili. Attorno al decimo minuto prendono forma elementi ricorrenti, quasi dei refrain che introducono una fase più apertamente “musicale”: tra le esitanti melodie il piano sembra preludere a un momento liberatorio simile alla tormentata epifania di “Cathnor”, laddove invece la palpabile tensione sottolineata nel titolo rimane sostanzialmente senza un vero sfocio.
Tilbury devia dall’apparente impasse ricorrendo al suo fidato richiamo per uccelli, elemento sommamente estraneo ma così singolare da portare alle estreme conseguenze lo sforzo profuso nella più solenne non-significazione. Parimenti, un piccolo ventilatore sfiora la superficie delle corde superando le possibilità umane di pizzicamento delle stesse, generando un frinìo artificiale che per qualche lungo istante invade lo spazio con fitte frequenze acute.
Ma nel corso di questa ora scarsa non c’è quasi un attimo di vero silenzio, dato che la chitarra di Rowe alterna linee statiche più o meno spesse ma sempre presenti, fenomeno che contribuisce a conservare il senso di inquieta desolazione del brano/suite. Solo nelle ultime battute i gesti tornano a farsi lenti e “ragionati”, conducendo a uno spegnimento graduale il dialogo sommesso e rarefatto dei due colleghi.

Pubblicato un anno più tardi dall’etichetta Potlatch, l’artwork di “E.E. Tension and Circumstance” presenta un disegno a pennarelli colorati del fratello minore Milford Charters-Rowe (1950-2008), mentre sul retro Keith ha imitato la scrittura della madre per riportare il titolo e le specifiche della performance e dell’album.In una recensione Richard Pinnell, testimone in prima persona della performance, scrive: “Alla fine del disco ci sono un paio di minuti di apparente silenzio (– di fatto quasi cinque, ndr). Ascoltandoli ora mi raffiguro vividamente gli accadimenti nella sala da concerto. Ricordo il volto di Rowe mentre guardava in lontananza. Tilbury, invece, faceva danzare le dita in modo frenetico e silenzioso lungo i tasti del pianoforte, accarezzandoli leggermente e creando i più delicati suoni percussivi. A un certo punto le sue dita scivolarono, un momento circostanziato che rilasciò nella stanza una singola nota troncata. Questo silenzio, assieme alla casualità della nota accidentale, è rimasto nella registrazione dell’album.” [8]


enough still not to know, Sofa Music, 2015

Nell’aprile 2007 Keith Rowe aveva collaborato a un’installazione video di Kjell Bjørgeengen nell’ambito di una residenza presso Esquilo Records, a Porto: “un progetto che mira a mettere in discussione il ruolo della radio nella creazione artistica contemporanea, attraverso la musica e le immagini”. [9] I due artisti sviluppano un sistema d’interazione tra i feedback della chitarra e il canale video proiettato su schermo: il chitarrista forniva input sonori che si traducevano in sfarfallii e pattern minimali di bianco e nero, elementi visivi essenziali che poi avrebbe a sua volta “letto” come uno spartito per condurre l’esecuzione in altre direzioni.
Rowe e Bjørgeengen si sarebbero poi incontrati di nuovo in tre occasioni, a febbraio e a dicembre del 2010, rispettivamente al CAN (Centre d’art Neuchâtel) in Svizzera, al centro Experimental Intermedia di New York (progetto curato da Phill Niblock) e al sopracitato Les Instants Chavirés di Montreuil, pochi giorni prima del duo di “E.E. Tension and Circumstance”. Sarà soltanto nel 2013 che i due coinvolgeranno anche Tilbury per un paio di esibizioni a Oslo, tra febbraio e marzo 2013.

Queste le premesse alla base del quadruplo cd “enough still not to know”, inciso tra il 17 e il 18 luglio del 2014 presso i City Music University Studios di Londra. La correlazione con i “flicker video” di Kjell Bjørgeengen è in pratica l’unica giustificazione per l’inclusione (destinata a ripetersi tre anni dopo) all’interno del catalogo fieramente nazionalista dell’etichetta norvegese Sofa, fondata e curata dal percussionista sperimentale Ingar Zach.Inizialmente un’opzione per il titolo del lungo set di Rowe e Tilbury era “Late Music”: un sardonico riferimento al fatto che allora i musicisti avevano già rispettivamente 74 e 78 anni di età, senza contare che in inglese, in base al contesto, il termine late può significare ‘tardo’ come anche ‘defunto’. La scelta è poi ricaduta su una frase contenuta nella novella “Worstward Ho” di Samuel Beckett – nume tutelare di ricorrente ispirazione per il maestro Morton Feldman come per il discepolo Tilbury –: un testo che l’autore stesso dichiara intraducibile in lingua latina, avviluppato com’è in giochi di parole allitterativi e vertiginosi nonsense.

[…] Ancora dunque le spoglie di mente. Ancora troppo. Ancora troppo di un qualche chi da un qualche dove in qualche modo. Niente mente eppure parole? Anche queste a loro volta parole. E così ancora troppo. Quel tanto ancora di troppo per gioire. Gioire! Quel tanto ancora di troppo per gioire che soltanto loro. Soltanto!
Ancora troppo per non sapere. Non sapere quello che loro dicono. Non sapere cos’è che le parole che dice dicono. [10]

In questo caso la performance del duo non entra in dialogo diretto con gli schermi di Bjørgeengen: ciò nonostante, l’esile libretto in total black riporta le intenzioni dell’artista scandinavo in merito alla “musica” da creare per la sua installazione:

Volevo che i silenzi fossero capaci di operare piccoli, piccolissimi cambiamenti nel video. In un certo senso, come l’effetto drammatico di quando un attore No, dopo aver rallentato la nostra percezione del tempo, fa un movimento col piede, e quel piccolo movimento è percepito come un evento drammatico.
Prima della registrazione abbiamo parlato dell’installazione video come uno spazio dove le persone possono entrare a piacere, e forse senza nemmeno aspettarsi di ascoltare della musica. Non c’era pressione verso una musicalità in senso tradizionale, un senso di traiettoria o movimento, ma la possibilità di essere nel momento. Così per il momento di silenzio, e otteniamo una reminiscenza dell’andare dentro e fuori dalla vita, dal nulla a qualcosa e viceversa. [11]

A chi conosce il percorso espressivo del duo sino a questo momento, le indicazioni sul rapporto presenza/assenza sembreranno lecitamente superflue: sarebbe improbabile, infatti, non soltanto che il duo deviasse da quella consolidata formula di interplay riflessivo e discontinuo, ma ancor prima che accetti di incontrarsi in un contesto che non favorisca tali condizioni di assoluta avulsione dal mondo esterno – uno spazio fisico e mentale entro il quale detenere il controllo arbitrario sul silenzio e sui suoni che lo turbano o interrompono brevemente.
“Ogni parola è una macchia inutile sul silenzio e sul nulla”: davvero lo spirito di Beckett permea più che mai i gesti parsimoniosi e inconsequenziali del duo, cesure nell’inerte tessuto sonoro che assumono così una pregnanza singolare e irripetibile.

Gli elementi sono quelli usuali: preparazione del pianoforte – che di conseguenza torna a una percussività in rapporto liberamente variabile con l’armonia –, oggetti atti a (tra)sfigurare l’identità sonora della chitarra amplificata, droni elettroacustici al limite dell’inudibile, silenzi immoti e prolungati. Ma risulta arduo e finanche controproducente individuare, esaminare e interpretare una lunghissima anti-drammaturgia fondata sulla convinzione che, in ultima analisi, la presenza di un esecutore sia superflua e che ogni atto sonoro trattenuto equivalga al compierlo.

Soltanto l’ultima mezz’ora, isolata nel quarto disco del boxset e probabilmente registrata nel secondo giorno di sessioni, presenta un dinamismo e una varietà di soluzioni tali da distinguerla rispetto al resto, come fosse un corollario o l’encore per un pubblico che non c’è e forse, nella loro visione, mai ci sarà. Una raccolta di momenti il cui unico filo rosso sono le luminose risonanze del pianoforte preparato e non, stabilmente situato nel registro medio, mentre gli interventi di Rowe sono ancora una volta estremamente pazienti e “calcolati”, talvolta anche brutali nel sovrastare il vuoto.
In maniera inconsueta, nelle note di copertina, il chitarrista fornisce persino una tabella temporale riferita ai “contrastanti materiali della quarta sezione”: una sorta di mappa concettuale che rintraccia il vissuto umano e artistico dello sperimentatore in momenti e immagini sparse, dalle storiche performance aleatorie di David Tudor al cinema di Béla Tarr, dal ricordo delle partiture grafiche di Cornelius Cardew alla live session viennese col sassofonista Martin Küchen, sino a ricordi e sentimenti più intimi e astratti.

(00:00:50) memory.
(00:01:54) shock, Tudor 1962.
(00:03:55) Abbey, recalling 2004.
(00:05:30) le Grice, chang, 1959.
(00:06:50) Kuchen, song 2013.
(00:08:30) scratching, Kjell 2012.
(00:10:15) abrupt, Tudor 1962.
(00:16:30) Tarr, girl walking with her dead cat 1994.
(00:18:50) pan cleaner, Edges Wolff 1968.
(00:20:50) timeline.
(00:24:30) elements of treatise, Cardew 1968.
(00:26:25) memory of the past, Brian 1940.
(00:27:40) the fog of history.
(00:30:20) the sound of drawing, Uglow, Hartley.
[12]

Persino per Rowe e Tilbury, dopo un così monumentale sforzo di non-significazione, sarebbe difficile concepire un atto più estremo, a meno di assecondare in pieno il ben noto canone cageano di 4’33’’, teatro assente della musica contemporanea a venire. “Una fede in niente ma totale” [13], recita il titolo di una raccolta di scritti dell’artista contemporaneo Claudio Parmiggiani sulla propria poetica: è la dichiarazione d’esistenza e liceità di un’arte religiosa benché affrancata dalle confessioni riconosciute e praticate dalla collettività; dunque la possibilità di una devota dedizione al proprio sentire e creare, come i soli officianti di una liturgia profana ma sacrale, universale pur nella sua profonda e ineludibile individualità.
“Art for art’s sake”, certo: ma in pochi sembrano avere una concezione così elevata di ciò che è l’arte, e di quale sia il suo valore al netto del gusto collettivo e del mercato che l’hanno irrimediabilmente corrotta. 214 minuti e 46 secondi più tardi, Godot non è arrivato. O forse, non visto, è sempre stato lì.


In seguito all’invito da parte di un festival di musica contemporanea a Huddersfield, l’ormai storica formazione a tre della sigla AMM – Prévost, Rowe, Tilbury – torna insieme per festeggiare il cinquantesimo anniversario dello storico progetto free impro, avviando a fine 2015 una serie di performance in giro per il mondo, tre delle quali poi incluse nella raccolta “An Unintended Legacy” (Matchless, 2018).
Questo insperato “disgelo” riapre nuovi spiragli anche in rapporto alle potenzialità espressive dei componenti, regalando agli ascoltatori affezionati momenti d’ispirazione rigenerata, inclusa la successiva occasione d’incontro del duo Rowe/Tilbury.


Sissel, Sofa Music, 2018

Nel 2016 si spegne all’età di 76 anni la moglie di Kjell Bjørgeengen, Sissel Bakken. Poche settimane dopo, nel gennaio del 2017, i tre artisti si reincontrano per una live session  in sua memoria al festival Moving Sounds di Stavanger. Tra le scarne informazioni all’interno del cd un semplice epitaffio: “Abbiamo creato questa musica con Sissel nei nostri cuori e nelle nostre menti”.

Pur non contemplando prove generali prima delle esibizioni, Rowe e Tilbury hanno accolto la suggestione visiva che l’artista scandinavo ha proposto come “immagine-guida” della performance: si tratta di un dipinto di Nicolas Poussin, “Paesaggio con le ceneri di Focione” (1648), conservato presso la Walker Art Gallery di Liverpool. A narrare la vicenda storica del soggetto fu Plutarco nelle sue “Vite degli uomini illustri”: il generale ateniese Focione, accusato ingiustamente di tradimento dai suoi avversari politici, nel 318 a.C. fu condannato a morte per avvelenamento e non gli fu permesso di essere sepolto in patria; la sua vedova ne dispose dunque la cremazione alla periferia di Megara, dove è ambientata la scena raffigurata dal classicista Poussin, artista tra i più rinomati del suo tempo.

Anche soltanto uno sguardo fugace rivela il senso generale dell’olio su tela: sebbene la figura femminile, chinata a raccogliere le ceneri del caro estinto, sia posta in primo piano rispetto a tutti gli altri elementi, la sovrastante imponenza della polis e delle formazioni montuose sullo sfondo catturano lo sguardo e lo indirizzano verso il punto di fuga; oltre a ciò, come nei celebri capolavori di Bruegel il Vecchio, gli abitanti del luogo proseguono nelle loro attività quotidiane di sempre, mettendo così in prospettiva gli eventi più significativi e le tragedie individuali che si consumano a poca distanza.

Per vie laterali, dunque, si esplicita lo spirito con cui i tre performer si sono approcciati ai loro strumenti, ancora una volta paradossalmente atti a esprimere un’incomunicabilità dalla quale risulta impossibile svincolarsi. Dichiara lo stesso Keith Rowe: “In questa direzione si è mossa la mia musica nell’ultimo decennio, un muto grattare in primo piano, e il chiacchiericcio e il rumore della vita umana vagamente da qualche parte sullo sfondo”. Il suo è, tipicamente, un tappeto di ronzii, fruscii e interferenze elettroacustiche generate dalla preparazione e amplificazione della chitarra: variazioni su un tema senza traccia di tonalità, talvolta ruvido e pervasivo, talaltra quasi del tutto inudibile. La caratterizzazione emotiva spetta al solenne e malinconico pianoforte di Tilbury, forse mai così “presente” e limpido prima d’ora, in perfetto equilibrio tra il distacco zen di Cage e la dilatazione temporale di Feldman portata all’estremo.
Forse c’entra il fatto che per la prima volta il rito funebre non ha un legame diretto con i familiari del duo Rowe/Tilbury: comunque sia, la loro esecuzione è di gran lunga la meno impenetrabile del loro catalogo, attraversata da un respiro tendenzialmente più lieve e fiducioso, al confronto coi precedenti più simile a una ninna-nanna che a un ferale ed esitante discorso d’addio.

Benché di natura prettamente visiva, l’intervento di Bjørgeengen ha diretta derivazione dai suoni prodotti dai due musicisti, generando una forma elementare di alternanza caotica tra bianco e nero, luce e buio, simile all’effetto statico dei vecchi televisori in assenza di segnale. Le frequenze audio del piano e della chitarra distorcono in tempo reale la sequenza di frame minimali proiettata sullo schermo, nervosa e allucinata rielaborazione di un vuoto contatto tra input binari artificiali.
Lo spirito della circostanza performativa si esprime anche nella consapevolezza che, nel corso della performance, una registrazione della Ciaccona di Bach (nell’interpretazione della pianista Tatiana Nikolayeva) viene riprodotta a volume spento, ed è quindi al contempo presente e assente nello spazio fisico e acustico. Ma solo negli ultimi cinque minuti si crea una vera attesa, un silenzio gravido di coscienza artistica e autocontrollo, dissolvenza naturale in direzione del ritorno alla vita reale e vissuta.

L’intenso memoriale di “Sissel” ci consegna una volta di più l’interrogativo, anzi il mistero, per cui un dialogo strumentale così quieto ed ermetico riesca a essere, a suo modo, struggente a un livello così puro e primordiale, nonché capace di lasciare emergere in maniera trasparente la profonda umanità dei suoi fautori. La risposta – se c’è – risiede nell’ascolto stesso, e in nessun altrove. [14]


Note:

[1] Brian Olewnick, recensione di “The Hands of Caravaggio” su AllMusic
[2] Estratti da un post su Facebook dedicato al progetto per “Duos For Doris”
[3] B. Olewnick, recensione di “E.E. Tension and Circumstance” sul blog personale Just Outside, gennaio 2012
[4] B. Olewnick, Keith Rowe. The Room Extended, powerHouse Books, 2018, p. 344
[5] J. Abbey, ib.
[6] vedi nota 3
[7] John Eyles, recensione di “E.E. Tension and Circumstance” su All About Jazz, 21 gennaio 2012
[8] Richard Pinnell, recensione su The Watchful Ear, 9 gennaio 2012
[9] Note di programma della Fundaçao de Serralves
[10] Dal racconto “Peggio tutta”, in Samuel Beckett, In nessun modo ancora, Einaudi, 2008, traduzione di Gabriele Frasca. (Grassetto mio)
[11] Note di copertina per “enough still not to know”, Sofa Music, 2015
[12] ib.
[13] Andrea Cortellessa (a cura di), Claudio Parmiggiani. Una fede in niente ma totale, Le Lettere, 2010
[14] Estratti adattati dalla mia recensione di “Sissel” per OndaRock, 29 maggio 2018


Michele Palozzo è critico e curatore musicale indipendente. È redattore stabile della webzine Ondarock.it, per la quale coordina la sezione altrisuoni. È co-fondatore e direttore artistico del progetto culturale Plunge, attivo a Milano nell’ideazione e organizzazione di concerti ed eventi performativi dedicati alle più interessanti espressioni sonore contemporanee.