L’OCCHIO ESTRANEO / 3
Quadri viventi
| Autore: Michele Palozzo |
L’arte è anche tecnica, e come tale ha proceduto per gradi di conquista atti a “perfezionarsi”: dalla pittura si è passati alla fotografia, e dalla fotografia al cinema, l’immagine in movimento; dalla pellicola al digitale, dalla bidimensionalità al 3-D, poi alla realtà aumentata, sino a quella virtuale. La riproduzione del mondo sensibile ha sempre voluto approssimarsi a esso, assottigliando il divario che li separa nell’utopica ricerca di una loro sovrapposizione – qualcosa di simile a un delirio d’onnipotenza divina.
Come noto, il cinema si è imposto da subito come il medium più potente di tutti, riuscendo a convogliare al suo interno tutte le principali espressioni artistiche ad esso precedenti. Nei suoi oltre cento anni di vita, tuttavia, il cinema non è stato in grado di soppiantare le arti visive classiche: pur essendo divenuti riproducibili all’infinito, i dipinti originali conservano tuttora l’impareggiabile aura di unicità che ne precede la riproducibilità tecnica, così da perpetuare il gusto e l’intelligenza di quegli artisti che furono in grado di condensare e “fissare” in una sola immagine tutti i significati e i tratti sensoriali della realtà di volta in volta presa a soggetto.
Da principio il cinema fece leva proprio sulla sua capacità di catturare la realtà in movimento, di documentarla e narrarla in maniera ampia e articolata, simulando lo “scorniciamento” della rappresentazione pittorica – con giochi di luce proiettati sulla fissità dello schermo – per fare sfoggio di un realismo inconcepibile prima di allora.
Ma ben presto, forse inconsciamente, la nuova arte audiovisiva deve aver vissuto il timore di perdere la qualità aurale teorizzata da Walter Benjamin, sviluppando una consapevolezza che sembra aver ispirato un’idea “involutiva” di opera cinematografica. Si insinua una crisi identitaria, un cortocircuito che, pur non avendo dato luogo a una corrente cronologicamente situata, attraversa in varie forme tutta la storia della settima arte: il tentativo di riconquista di un’immanenza pre-moderna dell’opera, tramite un meccanismo illusorio che arresti l’attimo fuggente dei fotogrammi in rapida sequenza.
Almeno nelle intenzioni, dunque, viene attuata una rinuncia volontaria allo “sguardo mobile”, alla possibilità di catturare il movimento transitorio, effimero, lo stesso che la pittura – in direzione oppositamente evolutiva – conquistò in parte con le avanguardie a cavallo tra Ottocento e Novecento, dagli impressionisti francesi al nostro Futurismo, sino ai ritratti convulsi di Francis Bacon.
Nel tempo tantissimi registi hanno dichiarato la passione e la profonda ispirazione suscitate dalle arti visive, ma esiste una minor parte di loro che pare esserne totalmente ossessionata, come alla ricerca di una perfezione estetica che sia in grado di plasmare l’intera vicenda narrata entro la propria rigorosa struttura. È questa, spesso, anche l’occasione per un recupero neoclassicista della rappresentazione, nel mezzo di una sempre più scomposta astrazione degli schemi pittorici tradizionali, costantemente minacciati dall’incalzante obsolescenza del loro passato.
Inseguendo un anelito donchisciottesco, dunque, da medium passivo la macchina da presa diviene idealmente il tramite di una proiezione unicamente “attiva”, simile a quella della pittura, anziché contenitore di memoria sensibile catturata su celluloide.
In questo senso Antonio Costa individua l’effetto quadro con un “effetto, più o meno evidente, di tempo sospeso, di spazio definito (o concluso) e di selezione cromatica” [1]; un impianto visivo, dunque, che non testimonia la ricerca di oggetti e contesti spaziali affiliati all’arte pittorica ma che si sostituisce ad essa, organizzando ciascun elemento entro la cornice dello schermo secondo proprie regole di composizione.
A motivo di ciò sono da escludersi, in questo particolare focus, tanto i casi di esplicito richiamo visivo a opere pittoriche esistenti – come “L’ultima cena” dell’operazione chirurgica in “M*A*S*H” di Robert Altman – quanto il ricorrente esempio meta-testuale del “Passion” di Jean-Luc Godard, trama corale imperniata su un set cinematografico ove vengono riprodotte celeberrime tele della storia dell’arte. Allo stesso modo sono da escludersi film “monografici” in esplicito tributo ad autori del passato, ad esempio Brueghel il Vecchio (The Mill and the Cross, L. Majewski, 2011, trad. “I colori della passione”), Caravaggio (D. Jarman, 1986) e Edward Hopper (Shirley – Visions of Reality, G. Deutsch, 2013).
Barry Lyndon (Stanley Kubrick, 1975)
Ovvio quanto ineludibile capostipite del tableau vivant cinematografico, la genesi del dramma in costume “Barry Lyndon”, come quasi tutti i capolavori di Kubrick, ha del leggendario. Dopo aver realizzato sia “2001: odissea nello spazio” che “Arancia meccanica”, il regista venne a sapere che tre dei dieci rivoluzionari obbiettivi prodotti dalla Carl Zeiss per le missioni Apollo della NASA non erano mai stati ritirati; il maestro decise che era il tipo di lente che gli avrebbe permesso di girare il suo prossimo film in costume utilizzando quasi esclusivamente la luce naturale. Con tono fintamente ingenuo si rivolse dunque a un suo collaboratore per far sì che gli procurasse quegli esemplari, ben conoscendo il loro reale valore.
La particolarità dei pezzi non era però facilmente adattabile alle macchine da presa solitamente utilizzate da Kubrick, che quindi affidò il compito al talentuoso Ed Di Giulio, che finì per montare lo Zeiss senza otturatore su una cinepresa Mitchell BNC, integrata con un meccanismo per regolare la non facile messa a fuoco delle scene in interno, illuminate unicamente da candele. [2] L’avanguardistica dotazione tecnica venne poi messa al servizio di una mise en scène progettata nei minimi dettagli, dalle location individuate nel territorio irlandese, ancora ricco di edifici originali del XVIII secolo, ai costumi che Milena Canonero procurò partecipando alle aste specializzate di costumi d’epoca autentici.
Ma qualunque elemento di verosimiglianza sarebbe stato inutile senza la somma visione registica di Kubrick, che nell’equilibrio compositivo delle inquadrature non mira semplicemente a evocare le atmosfere dell’epoca illuminista, bensì a ricrearle secondo le sue stesse forme di rappresentazione: “Servendosi di obbiettivi zoom, che consentono allo spettatore di scoprire poco a poco le immagini ispirate ai dipinti dei grandi pittori dell’epoca (Watteau, Hogarth, Gainsborough, Reynolds, Chardin e Stubbs), e della musica classica che ci immerge in un’atmosfera impregnata di cultura e nobiltà, Kubrick ha saputo dare forma a paesaggi di raffinata civiltà dietro cui si cela la barbarie latente nell’animo dei personaggi”. [3]
Con “Barry Lyndon” il maestro inglese sublima il concetto stesso di fiction, lo porta a un estremo mai raggiunto prima, e che difatti la critica del suo tempo non seppe accettare: come ricorda Enrico Ghezzi, il Newsweek lo liquidò definendolo “un libro di illustrazioni costato 12 milioni di dollari”, ma il suo senso ultimo è da ricercarsi proprio nei modelli figurativi cui si riferisce, poiché « la Storia comincia dai quadri, e la “storia” stessa del film è “prodotta dai” quadri. […] Kubrick prende ironicamente sul serio l’utopia di un cinema che voglia essere “storico” […] È partito quindi dal “cinema” dell’epoca, o meglio da ciò che prima di tutto di quell’epoca può “interessare” al cinema: le immagini ». [4]
Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles (Chantal Akerman, 1975)
Decisamente coraggioso per il suo tempo, il secondo lungometraggio e magnum opus della regista indipendente belga Chantal Akerman è una prova di estrema disciplina formale, per la più parte mascherata da cinéma vérité ma propedeutica alla veicolazione di un messaggio che rimane sottotraccia sino agli ultimi dei suoi 200 minuti di durata.
Ogni gesto, ogni spostamento della casalinga e vedova Jeanne Dielman è documentato con distacco dallo sguardo neutrale della macchina da presa, fissamente posizionata negli stretti spazi dell’abitazione in quai du Commerce a Bruxelles. Un rituale soggetto a ben poche e insignificanti variazioni, dal preparare la cena per sé e il figlio all’accogliere uomini di mezz’età ai quali offrire favori sessuali in cambio di denaro. Ogni aspetto viene presentato (e così lo percepiamo) come parte di un’assoluta normalità, di una vera e propria cornice familiare dove si consuma un’umile e riservata esistenza. “Veniamo assorbiti in quel nulla. L’occhio, inevitabilmente, comincia a vagare, a spostarsi attorno alla superficie dell’immagine filmata. Iniziamo a notare la stucchevole simmetria dell’inquadratura e del mobilio di Jeanne. Iniziamo a comprendere il senso che questa donna investe nel quotidiano ma capiamo anche la vuotezza dell’insieme”. [5]
Il cambiamento è quasi impercettibile, disseminato in sequenze/giornate così interminabili da simulare il tempo reale: sono segnali poco visibili, lievissimi inciampi nella successione di automatismi – accendere e spegnere interruttori, scolare una pentola di patate, scoperchiare un vaso –, deviazioni dalla norma che non intaccano la relativa fissità del mosaico domestico e che tuttavia incidono profondamente sull’ossessiva routine della donna.
Il segnale della svolta narrativa coincide con l’accesso della mdp in camera da letto, non più nel momento del riposo ma in quello della fornicazione. Il cambio di prospettiva è immediato: il volto di Jeanne è una maschera senza espressione, il suo delitto una reazione improvvisa al disordine che ha divelto la sua ermetica costruzione della realtà e spalancato l’abisso sottostante, l’ultimo quadro una crepuscolare Pietas di autocommiserazione.
I misteri del giardino di Compton House (Peter Greenaway, 1982)
La ricerca formale di Greenaway attraversa quasi quarant’anni nel solo ambito cinematografico, dall’opera fondante in oggetto sino al recente Eisenstein in Guanajuato (2015). È in realtà l’unico caso qui citato per cui l’attività di cineasta è di fatto la prosecuzione di quella di artista visivo in senso proprio: Greenaway ha studiato al Walthamstow College of Art per diventare pittore, e solo nella tarda adolescenza ha scoperto il fascino della settima arte, dedicandosi in seguito alla sua critica e producendo i primi corti sperimentali negli anni sessanta.
Oltre a essere già uno straordinario risultato in termini di composizione estetica, The Draughtsman’s Contract (“I misteri del giardino di Compton House”) rappresenta il manifesto dell’ossessione ricorrente dell’autore riguardo al rapporto tra la realtà e la sua rappresentazione: il frame della pellicola è in rapporto d’aspetto di 1 a 1.66, corrispondente alle proporzioni preferite da Claude Lorrain per i suoi disegni di paesaggio; il mirino utilizzato dall’artista al centro della vicenda è “un congegno ibrido, liberamente tratto dal dispositivo ottico usato da Canaletto e Dürer”, e “l’esecuzione dell’intreccio e il fatto che i disegni siano firmati dallo stesso Greenaway rafforzano il parallelismo tra disegno e regia”, dimostrando che “l’origine del cinema si collega figurativamente allo spazio della veduta e all’atto di osservare il paesaggio”. [6] Solo in cinque sequenze la macchina da presa si sposta nello spazio scenico – per un totale di non più di venti singoli movimenti – e ciò avviene sempre su un asse perfettamente orizzontale, così da seguire l’ideale forma rettangolare di un quadro/inquadratura che non potrebbe esaurirsi nel formato fisso del frame (si pensi al formato allungato nelle vedute dei macchiaioli, come “La Rotonda dei bagni Palmieri” e “Signora seduta all’aperto” di Giovanni Fattori).
I diversi momenti della vicenda si svolgono con ordine e rigore programmatici, tassonomici, dove la catalogazione numerica sembra a sua volta elencare proprio gli articoli e i commi di un contratto giuridico stipulato tra chi predispone lo spettacolo e il suo spettatore. Infine, il ritmo serrato delle composizioni minimaliste di Michael Nyman, eseguite dall’omonima band, forniscono il perfetto commento sonoro ai frenetici e impeccabili colpi d’occhio di Greenaway, inaugurando una fruttuosa collaborazione che li vedrà al fianco per altri tre progetti.
Con il successivo A Zed and Two Noughts (“Lo zoo di Venere”, 1985) il regista gallese procederà nella sua ricerca estetica ispirandosi a Vermeer, il maestro olandese che riusciva ad “animare” i suoi ritratti per mezzo di effetti di luce estremamente realistici. Ben più recente, invece, il totalizzante compimento di Goltzius and the Pelican Company (2012), ispirato alla vicenda dell’incisore olandese del tardo Cinquecento, summa neobarocca che travalica il confine con l’arte contemporanea ricollegandosi al “rinascimento elettronico” di Bill Viola, al ciclo Cremaster di Matthew Barney e alle video-installazioni del collettivo AES+F.
Nostalghia (Andrej Tarkovskij, 1983)
Con la madrepatria ancora nella morsa del regime sovietico, nel 1982 Tarkovskij decide di rimanere in Italia per portare a termine i progetti avviati in collaborazione con la RAI, tra cui il suo primo lungometraggio in lingua straniera. Scritto a quattro mani con Tonino Guerra, in “Nostalghia” il regista trasferisce la propria condizione di esiliato nel personaggio del poeta Andrej Gorčakov, che si trova in Italia per fare ricerche sul compositore settecentesco Andrej Sosnovskij – realmente esistito – e redigerne una biografia. Nonostante le pregnanti simbologie e la consueta profondità filosofica della sceneggiatura, a questo punto della sua carriera Tarkovskij è sempre meno interessato all’intreccio narrativo e si concentra con crescente dedizione ai luoghi e alle emozioni che i protagonisti riescono a proiettare in essi, dipingendo sullo schermo quello che diviene così un quadro interiore. “Quello che mi interessa è l’uomo, nel quale è racchiuso l’Universo, e per esprimere l’idea, il senso della vita umana non è assolutamente necessario costruire a sostegno di quest’idea una trama di avvenimenti. […] L’arte esiste e si afferma là dove esiste quell’eterna e insaziabile nostalgia della spiritualità, dell’ideale, che raccoglie gli uomini attorno all’arte”. [7]
Di conseguenza anche il paesaggio appartiene a un’Italia “dell’anima”, che riunisce scorci assai ricercati delle province toscane, umbre e laziali [8]: L’affresco della Madonna del Parto di Piero della Francesca è dislocato nella cripta della chiesa di San Pietro a Tuscania (Viterbo); l’alloggio temporaneo del poeta e della sua assistente e interprete si trova nei pressi della vasca termale di Bagno Vignoni in Val d’Orcia; lunghe panoramiche sondano gli spazi aperti della maestosa abbazia “scoperchiata” di San Galgano, anch’essa in provincia di Siena; infine Domenico – paesano da tutti creduto pazzo per essersi chiuso in casa con la sua famiglia per sette anni, attendendo invano l’apocalisse – recita il suo monologo finale per poi darsi alle fiamme in piazza del Campidoglio a Roma, dove campeggia la statua equestre di Marco Aurelio.
Così ogni sequenza, sia essa “incisa” nel chiaroscuro di una stanza o nell’atmosfera sacrale di un luogo di culto abbandonato, si ammanta di un intenso ‘dolore del ritorno’ (dal greco νόστος – nóstos) che rivela “[le] possibilità e [la] vocazione dell’arte cinematografica di diventare un calco dell’anima umana e di comunicare un’esperienza umana unica”. (Tarkovskij, op. cit.)
Perdizione (Béla Tarr, 1987)
Nonostante il regista ungherese Béla Tarr abbia sempre rivendicato la continuità tematica della sua filmografia, dagli esordi docu-fiction all’atto finale de “Il cavallo di Torino”, con “Perdizione” (Kárhozat) si concretizza un fondamentale scarto stilistico, tanto nelle scelte registiche quanto nell’immaginario e nello sviluppo narrativo.
“Fondamentalmente, la domanda è come puoi portare la vita nell’immagine indipendentemente dalla narrazione. È attraverso questo film che sono giunto a comprendere che la narrazione non ha alcuna importanza. Sono stato in grado di filmare un muro come lo avrebbe dipinto un pittore. Ciò che mi interessava in una scena era la pioggia che cade, l’attesa che l’avvenimento più banale si verificasse.” [9]
Nell’attraversare lo scarno intreccio di corruzione e infamia in una periferia ignota, “idealizzata” attraverso un collage di location individuate dal set designer Gyula Pauer, Tarr riprende i suoi maestri Antonioni e Tarkovskij effettuando riprese saldamente ancorate ad altezza uomo, lente e riflessive – in termini temporali, un raddoppio di durata media del singolo take rispetto al precedente “Almanacco d’autunno” –; con esattezza geometrica sfrutta appieno la profondità spaziale e usa i movimenti di camera come uno sguardo imparziale che circonda personaggi quasi immobili, come costretti in una prigione esistenziale senza via d’uscita.
Spesso la mdp si allontana dal luogo dell’(in)azione, passa a fianco della presenza umana come fosse parte dello sfondo e con moto costante finisce per ometterla ritornando all’aperto nel grigio habitat urbano, individuato da Kovács come espressionista e saturo similmente ai noir americani degli anni 40 e 50, in contrasto col vuoto inespressivo dell’Antonioni de “La notte”, “L’eclissi” e “Deserto rosso”. Un paesaggio che “non è più l’Ungheria degli anni 70-80, ma un non meglio specificato scenario degradato, deserto, semi-urbano e semi-rurale, sulla via di una lenta, graduale disintegrazione mostrata attraverso un’accurata composizione visiva, riempita con oggetti ed elementi architettonici meticolosamente selezionati, e illuminato in un forte stile chiaroscurale” (Kovács). Un tableau universale che inaugura le più profonde riflessioni di Tarr sulla miseria umana, portate avanti nella collaborazione con lo scrittore László Krasznahorkai, autore di “Sátántangó” e “Le armonie di Werckmeister”.
Pina (Wim Wenders, 2011)
“Per me il cinema è primariamente una forma. Un film deve avere una forma, altrimenti non dice nulla. ‘Forma’ è qualcosa di visivo, non intellettuale. Quando faccio un film guardo molto, e penso molto poco. Si pensa dopo, durante il montaggio, non mentre stai girando.” [10] Wenders non è un regista degli spazi ma dei luoghi, ossia di contesti che abbiano un’identità custodita nelle immagini o nella memoria personale. Per lui le fotografie sono come “monumenti ai momenti” ed “emanazioni del proprio referente” [11]: a motivo di ciò, molti dei suoi film hanno origine da scatti fotografici che ne diventano una sorta di storyboard spontanea; le Polaroid, in quanto stampe senza negativo, hanno un carattere di unicità che le ricollega alla qualità aurale del dipinto, mentre il film diviene il medium atto a preservare l’esistenza delle persone e delle cose.
L’accorata dedica di Wenders al genio e alla sensibilità artistica di Pina Bausch mantiene gli stessi assunti teorici della sua produzione precedente, ma con il preciso obiettivo di eternare le invenzioni coreografiche che l’hanno resa una figura di riferimento assoluto per la danza contemporanea. Chiamati a rievocare le parole e gli insegnamenti di Pina, i suoi collaboratori e allievi vengono inquadrati su uno sfondo monocromo: la loro voce rimane fuori campo, di modo che i volti risultino trasparenti, non soggetti alle increspature dell’enunciazione verbale. La loro “parola” è il gesto, silenziosa e spontanea risposta al moto interiore dell’anima e al potenziale dinamico della musica: sia essa la furia primitivista del Sacre du Printemps di Stravinskij, tumulto di corpi e sottili sudari sporcati da sabbie color ruggine; una composta sfilata di smoking e tailleurs che si accende in un giocoso e sovraeccitato rito dell’accoppiamento (“Kontakthof”); una contrastata rincorsa tra amanti nel disordine di un bar idealizzato, percorso da una struggente aria da camera (“Café Müller”); un balletto classico poggiato interamente sulle punte, nel corridoio di un’area industriale; un tripudio di onde e zampilli d’acqua come allegoria botticelliana della sorgente vitale (“Vollmond”).
Ricollocato in gallerie d’arte, contesti urbani o stanze spoglie, lo spessore dell’atto gestuale è messo in risalto per mezzo del 3D, in uno dei pochi utilizzi coscienziosi di questa tecnologia, capace di accentuare l’armonia tra le parti in movimento, la complessa narrativa del corpo come unico produttore di significato, dimentico della propria nudità e in contatto con l’intero suo potenziale. Qualcosa di molto simile alla pittura classica, ma finalmente liberato dalle catene della stasi e sincronizzato col ritmo e la liquidità del mondo moderno.
Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza (Roy Andersson, 2014)
Apprezzato outsider del cinema contemporaneo, lo svedese Roy Andersson ha dedicato gran parte della sua carriera alla realizzazione di spot pubblicitari nel suo Studio 24: è qui, a oltre vent’anni di distanza dal suo secondo lungometraggio “Giliap”, che Andersson ha ideato e prodotto “Canzoni del secondo piano” (2000), il primo capitolo di quella che sarebbe divenuta la cosiddetta Living trilogy, un ciclo di “nature morte viventi” che esemplificano la pochezza dell’esistere nel mondo contemporaneo.
In questo caso l’intento para-pittorico è più che mai evidente ed estremizzato: ogni capitolo segna una conquista nel perfezionamento di questo stile, volto a creare un microcosmo di soggetti al contempo verosimili e surreali, patetici e impacciati in ogni loro gesto; un tragicomico regno dei morti viventi, a giudicare dalla pelle livida che li accomuna, simile alle anime spente che ingombrano il ‘viale Karl Johan’ di Edvard Munch.
La grottesca pantomima non si svolge in ambienti fisici, ma in spazi “iperreali” ricreati in studio con effetti trompe l’oeil tali da suggerire un’esatta profondità prospettica: in questi set artificiali ogni elemento, animato o meno, è presente allo stesso modo e nulla risulta sfocato o diminuito dal secondo piano visivo. Lo schermo diviene una superficie assolutamente nitida che supera la perfezione della fotografia digitale, una rappresentazione che “sembra reale ma è purificata e condensata. Sono affascinato da come la grandiosità, la minutezza e la mortalità della vita appaiono molto più chiare in questo modo.” [12]
A conclusione della trilogia, “Un piccione…” – Leone d’Oro a Venezia nel 2014 – procede a eseguire la definitiva autopsia su un’umanità già da tempo condannata: basterebbero le figure dei due fallimentari venditori di scherzi e maschere di carnevale, prodotti ben poco esilaranti presentati da individui che lo sono ancor meno, e che con la loro strenua insistenza parrebbero simboleggiare i vani sforzi di chiunque cerchi di sfuggire alla propria misera condizione. Nel teatro dell’assurdo beckettiano di questo epilogo anche la storia passata della Svezia finisce per intrudersi nel racconto, con la straniante comparsata dell’esercito di Re Carlo XII che sfila per le moderne strade cittadine, traslando così gli eventi dal dominio del possibile a un orizzonte metaforico in cui la vicenda umana è soltanto un soffio nella eterna circolarità del tempo.
Dichiaratamente ispirato agli aspetti filosofici dei romanzi di Dostoevskij e Camus, Andersson inscena la sua silenziosa apocalisse con sguardo cinico e beffardo, come disponendo bestioline impagliate in un diorama al quale guardare con divertita curiosità ma anche tenerezza.
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[1] Antonio Costa, Il cinema e le arti visive, 2002, Einaudi ↑
[2] Agostino Maiello, Barry Lyndon: e la luce (naturale) fu, 2006 ↑
[3] Paul Duncan, Stanley Kubrick. Poeta visivo 1928-1999, 2008, Taschen ↑
[4] Enrico Ghezzi, Barry Lyndon. Sul Settecento, in ‘Filmcritica’ n. 268, 1976 ↑
[5] Chadwick Jenkins, Chantal Akerman’s ‘Jeanne Dielman’ in Many Ways Strikes One As a Vermeer Painting Come to Life, PopMatters.com ↑
[6] Giuliana Levi, Atlante delle emozioni, 2015, Johan & Levi Editore ↑
[7] Andrej Tarkovskij, Scolpire il tempo, ubulibri, 1988 ↑
[8] il Davinotti, Le location esatte di “Nostalghia”, una preziosa ricognizione effettuata di persona per risalire ai luoghi in cui è stato girato il film di Tarkovskij ↑
[9] András Bálint Kovács, The cinema of Béla Tarr. The circle closes, Wallflower Press, 2013 ↑
[10] Film thieves. From a public discussion in Rome (September 1982), in “Wim Wenders: the Logic of Images. Essays and Conversations”, Faber & Faber, 1991 ↑
[11] Brigitte Peucker, The Material Image. Art and the Real in Film, Stanford University Press, 2006 ↑
[12] Roy Andersson: ‘I’m trying to show what it’s like to be human’, The Guardian, 28 agosto 2014 ↑
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Michele Palozzo è critico e curatore musicale indipendente. È redattore stabile della webzine Ondarock.it, per la quale coordina la sezione altrisuoni. È co-fondatore e direttore artistico del progetto culturale Plunge, attivo a Milano nell’ideazione e organizzazione di concerti ed eventi performativi dedicati alle più interessanti espressioni sonore contemporanee.