L’OCCHIO ESTRANEO / 4. Donne oltre lo specchio.

| Autore: Michele Palozzo |


Trovo affascinante l’idea di poter guardare allo schermo cinematografico come a uno specchio semiriflettente, oscurato dal nostro lato come nelle stanze buie dalle quali gli inquirenti osservano l’individuo sospetto. Nella stessa maniera esso non dovrebbe essere inteso come strumento di vanità e autocompiacimento estetico, ma come lente di osservazione e analisi, oppure come semplice testimone oculare (speculare) della vita e della sua rappresentazione soggettiva.

Torniamo così, nello specifico e senza troppi preamboli, a parlare di figure femminili, dei molteplici risvolti e significati della loro identità: tra delicata poesia e ferma risolutezza, senza luoghi comuni e banali espedienti narrativi, in cerca di una “verità” che riesca a nobilitarsi ancor più di quella che il cinema ambisce a simboleggiare, ritrarre e, in certi casi, capovolgere.


Tomboy (Céline Sciamma, 2011)

Ancora troppo piccola per discernere e considerare le identità di genere, Laure sa una sola cosa di per certo: ai vestiti da bambina preferisce canottiera e pantaloncini, e il taglio corto dei capelli fa il resto. Per i primi quindici minuti di “Tomboy” (tr. “maschiaccio”) facciamo obbligatoriamente il suo gioco: nulla ci porta a pensare che si tratti di una femmina, finché la madre non la chiama per nome dicendole di uscire dalla vasca da bagno.

Ora che conosciamo la verità ha inizio la finzione: nel nuovo quartiere dove si è trasferita la sua famiglia, Laure coglie inaspettatamente l’occasione di presentarsi agli altri bambini come Michaël, e fa di tutto per tenere separata l’identità domestica con quella “selvaggia”, vissuta tra i campi da calcetto e le sponde marittime. Nasce così una spontanea devianza legata a due differenti contesti di vita quotidiana: “il peso delle norme sociali e la spinta a conformarsi alla loro definizione binaria e normativa di genere sono simboleggiati dall’opposizione tra lo spazio dei boschi e la natura fuori dall’appartamento, dove Laure diventa Michaël, e lo spazio dell’appartamento che simboleggia i valori familiari, l’età adulta e la necessità di conformarsi”. [1]

Ma nelle gite al mare occorre più di un accorgimento per salvare le apparenze: il costume intero viene drasticamente sforbiciato e ridotto a uno slip, e lo spessore mancante va riempito con un pezzetto di plastilina sottratto alle mattinate di giochi con la sorella minore Jeanne; significativamente, il rotolino verde troverà poi posto nella scatola dei denti da latte, al pari di un reperto della propria corporeità passata. Le conseguenze di un violento litigio tra bambini porteranno Michaël a rivelarsi pubblicamente come Laure, condotta forzatamente dalla madre alla porta dei suoi amici, tra cui Lisa che, presa da una cotta, le aveva rubato un bacio tra le fronde.

I genitori non sono preoccupati per l’identità sessuale della loro figlia, ma sanno che il ritorno a scuola – e in generale i rapporti col mondo al di fuori della parentesi estiva – non possono prescindere dall’identità anagrafica e da ciò che si intende come “normale” per una bambina in età scolare.Laure affronta la libertà e in seguito la vergogna di un abito (reale e metaforico) che non le appartiene, e il suo viso malinconico riflette in modo trasparente un confine morale che nella sua mente non è mai esistito. Occupa pochi fotogrammi il suo ultimo sorriso, appena accennato, un’increspatura delle labbra che sembra dire: “Sì, sono pronta”. Ed è forse la poesia queer più delicata e sincera che il cinema abbia mai conosciuto.


La vita di Adele (Abdellatif Kechiche, 2013)

Ovvero “La (doppia) vita di Adèle Exarchopoulos”. Parliamo di registi che a un certo punto si innamorano. Non necessariamente di una storia o di un personaggio di finzione, bensì di qualcosa di molto più concreto. Ad esempio di un volto.
Ciò non nega che Abdellatif Kechiche abbia provato un reale interesse per il graphic novel di Julie Maroh,“Il blu è un colore caldo”, ma senz’altro il punto di svolta dev’essere coinciso con l’aver trovato una musa, o meglio un’icona, anzi un volto e uno sguardo iconici. Ciò non lo ha portato, banalmente, a voler rappresentare a tutti i costi una moderna storia d’amore, ma a incentrare un’intera opera cinematografica su quel volto ripreso, catturato, inseguito a distanza ravvicinata per così tanta parte del (lungo) film.

In questo senso – e in questo soltanto – l’adattamento del fumetto su grande schermo è “pornografico”: non certo per le scene di sesso lesbico, pur senza remore censorie ma non certo volgari, bensì passionali e iper-sinestetiche come poche volte accade (persino nel cinema d’autore). Kechiche non teme certo di mostrare un pube scoperto, sudato e odorante, proprio perché il vero atto pornografico lo ha già compiuto ed è sotto i nostri occhi per tutto il tempo, anche se in molti non sapranno accorgersene. Adèle Exarchopoulos si fa carico di un ruolo – in senso non-attoriale – realmente coraggioso, e questo a prescindere da qualunque aspetto dell’intreccio, sia filmico che amoroso, del film di Kechiche. Adèle, quella reale – di una splendida, perfetta realtà – ha lasciato che l’abbagliante bellezza del suo volto venisse rubata (e per sempre) da un autore visionario, che pare aver deviato qualsiasi altra intenzione per dedicarsi devotamente a quella bellezza, per lasciare che fosse tutto il resto a girare attorno ad essa, finendo quasi col rinunciare al tema portante del dissidio legato all’identità di genere.

Dopo la visione è difficile smettere di pensare a quella Adèle, quella che là fuori esiste davvero – eccome – ma non come preda di una similare infatuazione. La si ripensa come donna e attrice. Si pensa alla Adèle di domani, che col suo stesso nome si vedrà ritratta in modo smisurato in quest’opera a sua volta smisurata. E si prova a pensare a quel che lei stessa ne penserà: se proverà orgoglio o disgusto, non per quel che fa ma per quel che è come parte integrante, nucleo assoluto e al contempo pelle, superficie totale e pressoché esclusiva del premiato film di Kechiche. Se rimpiangerà un dono e sacrificio così spassionato della propria meravigliosa, imperfettamente perfetta, immagine giovanile. Se in definitiva si accorgerà, a qualunque conclusione possa giungere, che il prezzo di un tale gesto le è comunque valso, come ad altre prima di lei, quella tanto ambita quanto spaventevole immortalità che a questo mondo soltanto l’arte può davvero conferire.


Rosetta (Jean-Pierre e Luc Dardenne, 1999)

La più classica delle eroine ritratte dai fratelli Dardenne: guance rotonde e viso acqua e sapone, la diciassettenne Rosetta (Emilie Dequenne) si muove sempre a passo svelto, come se ogni distanza fosse troppo grande e ogni comune attività le sottraesse tempo prezioso. Corre come se da lei dipendesse non soltanto il destino della sua famiglia ridotta ai minimi termini, bensì quello di tutta l’agonizzante classe operaia belga.
Siamo dunque imprigionati nella sua visione, al ritmo delle sue falcate, allo scontro violento che costantemente si realizza in sua presenza: “per i fratelli Dardenne era necessario che la telecamera fosse con lei affinché lo spettatore fosse al suo fianco sul campo di battaglia. […] Il ritmo dell’immagine è dunque intrinsecamente legato al ritmo dell’azione e ai sentimenti del personaggio”. [2]

Non c’è spazio per la protesta o per un piano ragionato: Rosetta, “rebel with a cause”, va in cerca di lavoro finché non lo trova; sposta carichi pesanti con la stessa ostinata determinazione con cui distribuisce gaufres ai passanti, nella speranza di non vedere più sua madre costretta a vendersi per pagare l’elettricità nel campeggio per roulotte, o peggio per ubriacarsi. Senza apparente orgoglio femminista o intento vendicativo, Rosetta attacca a muso duro i padroni e i dipendenti finché non strappa qualche ora di salario, sino a mettere nei guai l’unico amico che le abbia offerto una mano, Riquet. Non accetta lavoro in nero – “Voglio un vero lavoro”, ossia legalmente riconosciuto – e lo disprezza, vuole ripulirne il suo mondo.
La lotta per uscire dalla povertà assoluta appare come un ostacolo insormontabile, e come Sisifo la ragazza cade e si rialza nervosamente dal fango, sotto un cielo invernale costantemente plumbeo. Il suo macigno, nell’ultima sequenza, è la bombola del gas che con fatica cerca di riportare nell’abitazione di fortuna per poter finalmente trovare riposo con sua madre, svenuta in preda all’ennesima sbornia. Sarà Riquet, dopo averla inseguita e accerchiata con la motocicletta, a offrire un ultimo gesto di pietà e prendere il carico al posto suo, confondendo le acque del loro rapporto d’amicizia ed egoismo.

Vero cinema dell’angoscia proletaria, la gemma grezza dei Dardenne “non è un film sull’avere un lavoro ma sulla necessità di avere un lavoro, che ha assunto la perfetta e definitiva bellezza di un Sacro Graal”. [3] A posteriori risulta quasi secondario che “Rosetta” abbia vinto la Palma d’oro al Festival di Cannes: la durezza e la straziante vérité di questo ritratto sono tali da aver ispirato, lo stesso anno dell’uscita nelle sale, un provvedimento in difesa dei diritti e del minimo salariale per i lavoratori minorenni – debitamente intitolato “Plan Rosetta”. Una vittoria per l’arte e per la società, dunque, che Luc Dardenne ha commentato così: “ci auguriamo sempre che i nostri film parlino alla gente, la disturbino, ma non abbiamo mai sperato di cambiare il mondo”. [4]


La doppia vita di Veronica (Krzysztof Kieslowski, 1991)

Tutte le arti hanno giocato con l’idea del doppio, l’esistenza impossibile oltre lo specchio, in un mondo rovesciato ma esteriormente identico. Il duplice ritratto di Kieslowski, oltre ciò, è anche una delle più belle storie d’amore tra la figura femminile – quella di Irène Jacob – e l’immagine filmica. Una seduzione onirica pervasa dalle tonalità calde e avvolgenti di un caleidoscopio, che il regista e il direttore della fotografia Sławomir Idziak realizzano con un filtro di verdi e marroni “che riempiono il mondo con un bagliore autunnale apparentemente benigno […] una questione di contrasto visivo, determinato dal grigio dominante nelle ambientazioni del film, Cracovia e Clermont-Ferrand”. [5]

La polacca Weronika e la francese Véronique scoprono l’esistenza l’una dell’altra con uno sguardo fugace tra la folla, durante uno scontro in piazza a Cracovia. Esistenze separate sulla mappa ma non nell’anima, sono ragazze ed “esseri emotivi” in grado di trovare l’estasi più profonda nelle istanze sensoriali meno comuni, molto più che nei loro compagni di letto. Weronika riluce di meraviglia infantile sotto una pioggia torrenziale, si eleva nel canto corale e di esso morirà improvvisamente – complice un disturbo cardiaco congenito – sotto gli occhi di tutti, toccando l’apice tonale durante un concerto in sala.
Il suo decesso diviene un risveglio inconscio per Véronique, che si ritrova scossa da un ineffabile senso di perdita e profonda tristezza mentre fa l’amore col suo partner. Decisa a lasciare la propria carriera di cantante, assume l’incarico d’insegnante di musica in una scuola elementare: in questa cornice avverrà l’epifanico incontro con Alexandre, burattinaio professionista che con le sue figure snodate inscena un affascinante spettacolo di danza per i bambini: anche qui è un solo sguardo a rendere reciprocamente manifeste le due esistenze, innescando un’anomala storia di passione fondata sullo stupore sensoriale e l’enigma.

Il tema del doppio non si riflette soltanto nei burattini, copie in miniatura di figure umane senza vita e anima prima che intervenga il loro artefice: Alexandre fa trovare a Véronique una registrazione su cassetta che replica gli stimoli di un vero percorso a piedi per le vie della cittadina francese, una trama di indizi sonori che la condurrà al bar in cui i due si incontrano nuovamente.
Ma il sentimento che prova Véronique non è altro che un riflesso onirico della sua dimensione sensoriale privata, un’allucinazione che la inebria e la soggioga come un incantesimo. Sono ancora i burattini di Alexandre, che ricrea le due figure speculari dell’amante, a evidenziare questo divario incolmabile: quando Véronique lo osserva all’opera dietro il suo teatrino, le mani “sono investite delle possibilità luminose, trasfiguranti e profonde che vede negli stessi burattini. Quando poi guarda i burattini che ha fabbricato per rappresentare le due “Véronique”, essi la nauseano per la loro mancanza di vita, la loro piattezza, la loro assenza di spirito e la loro cruda realtà. Non rispecchiano più i suoi pensieri e desideri interiori; piuttosto, nel loro nudo stato comune, sono ciò che sono in se stessi, semplici simulacri dell’animo umano.” [6].

La doppia figura femminile rimane irrisolta, poiché da principio Kieslowski non ha inteso la pellicola come il perseguimento di una trama lineare ed esplicita: il regista e il montatore avrebbero infatti concepito una ventina di possibili configurazioni prima di giungere al taglio decisivo del film, da viversi come esperienza sensoriale nello stesso spirito della sua sfuggente, eppure quantomai vivida protagonista.


Una moglie (John Cassavetes, 1974)

“I miei film sono la verità”, avrebbe dichiarato John Cassavetes alla presenza di un altro regista: con ciò non volendo certo ergersi a paladino del direct cinema messo in pratica da coevi pionieri del documentario moderno come Allan King e Frederick Wiseman, quanto piuttosto a voler rimarcare la strenua volontà di eludere qualsiasi schema narrativo classico, e di mettere alla prova lo spettatore sottoponendogli squarci di vita in tutta la loro dolorosa e inconciliabile ambivalenza.

“Laddove altri film forniscono esperienze chiare, Cassavetes ce le offre torbide. Accadimenti ed emozioni non vengono tagliate in piccoli bocconi per il facile consumo. Vengono presentati “non digeriti” – in tutto il loro confuso splendore – nello stesso modo in cui si incontrano nella vita. […] Il comportamento dei personaggi è oltremodo imprevedibile e mutevole. Dobbiamo sforzarci di comprendere cosa sta succedendo, accelerando per tener testa ai continui cambi di tono […] Siamo costretti a rimanere emotivamente in allerta – a rispondere di continuo, colpo su colpo, secondo per secondo.” [7]

È in virtù di questo approccio “totale” e integralista che non riusciamo a credere che quella di Gena Rowlands (vedova di Cassavetes) sia, in effetti, una recita, e che nel corso dei 150 minuti di “Una moglie” (A Woman Under the Influence) Gena non sia Mabel Longhetti. E benché non siano mancati i dovuti riconoscimenti e le candidature, nessun premio poteva rendere giustizia a quella che è giustamente passata alla storia come una delle performance femminili più straordinarie e “fuori categoria” della storia del cinema.
La condizione di Mabel, per come la immagina il regista, “non è particolarmente applicabile a tutte le donne, e il suo personaggio non è nemmeno inteso come rappresentativo di una convenzionale donna problematica. […] Cassavetes è interessato a dipingere il dolore attraverso ciò che ne è veramente la causa, che nella maggior parte dei casi non sono le pallottole o alcun tipo di ferita fisica, ma le emozioni”. [8]

“Sii te stessa”, pretendono affettuosamente i familiari e i conoscenti, nel tentativo di non colpevolizzare Mabel per i suoi evidenti disturbi psichici. Comprensivo ma irascibile, il marito Nick (Peter Falk) è un alleato altrettanto complesso da inquadrare, diviso tra la salvaguardia delle apparenze e l’ammissione di un’ingombrante realtà coniugale. Entrambi si trovano così a combattere l’eterna e invincibile lotta contro la tempesta del giudizio altrui, scivolando passo dopo passo verso un ricovero necessario ma solo parzialmente risolutivo. È l’agitazione e la goffaggine di chi la circonda l’innesco dei gesti e delle smorfie nervose di Mabel, grida silenziose che solo Nick accetta con sincerità e replica in segno d’intesa e di compassione, come un linguaggio muto che solo marito e moglie hanno diritto a scambiarsi.

Né il sistema sanitario né tantomeno gli affetti riescono ad affrontare adeguatamente un così profondo malessere mentale: per questo motivo “Mabel non viene estraniata dalla società né reintegrata in essa. Nella mezz’ora finale del film è più che mai sana, amorevole e generosa, eppure, per contro, più che mai fuori controllo, bisognosa e disperata. Oscilla tra i due stadi senza una transizione, senza raggiungere una via di mezzo. Entrambi gli estremi vengono onorati. Nessuno dei due scende a compromessi o è riconciliato con l’altro.” [9] Altro non è, più in generale, che la testimonianza di quelle “moltitudini” che affollano l’uomo e la donna, in epoca moderna e da sempre, condannandoli a una perpetua e insanabile contraddittorietà.


Poetry (Lee Chang-dong, 2010)

“L’arte è una ricerca della bellezza e pone la questione di come sia correlata alla sporcizia e al vizio del mondo. La domanda è simile a quella che si era posto Theodor Adorno: è possibile scrivere poesie liriche dopo Auschwitz? Nel film il personaggio di Mija fa quelle domande al posto mio. Sarà la vecchiaia, ma è abbastanza ingenua da chiederle. Così come tutti i principianti sono ingenui.” [10]

Come un frutto deve attraversare il processo di maturazione per poter diventare prelibato, così la poesia non va invocata e ricercata con insistenza: occorre vivere aspettando che possa essere còlta nella sua pienezza di significato e di armonia estetica. Chang-dong ricerca la propria singolare forma di lirismo narrativo ispirandosi a due storie vere accadute nella natia Corea del Sud: quella di un deplorevole fatto di cronaca nera, perpetrato da ragazzi minorenni ai danni di una loro coetanea, e la più lieve vicenda di un’anziana ed elegante signora che si pone come obiettivo di vita – forse l’ultimo – quello di scrivere anche una sola poesia.

Ricalcando e cucendo il suo personaggio a immagine dell’ex-star del cinema nazionale Yun Yeong-hie, con infinita delicatezza il regista dà vita a Mija, figura irreale della quale non conosciamo quasi per nulla il passato, poiché l’autore ha voluto “che il pubblico li sentisse e li capisse attraverso il suo presente”. [11] Nel mezzo di una tempesta silenziosa, Mija perde lentamente la memoria e deve assumersi la responsabilità degli atti sconsiderati del nipote minorenne Wook, che assieme ad alcuni compagni ha ripetutamente violentato una ragazzina sino a condurla al suicidio. Un principio di Alzheimer conduce la mente lontano dalle difficoltà contingenti: le trattative per risarcire i genitori della vittima si dissolvono nel profilo di una mela in cui Mija si smarrisce con lo sguardo, cercando di trovarne un’espressione nascosta, meno apparente rispetto all’ovvietà della sua forma e del suo gusto, che finirà comunque per preferire alla pura osservazione.

Non c’è vera giustizia finché la verità resta nelle mani di pochi: il caso segue il proprio sentiero invisibile e ristabilisce l’ordine delle cose, i colpevoli sono scoperti, le pedine più grandi attaccano e tornano in posizione. È nei tardi postumi della tragedia che finalmente la poesia si eleva spontaneamente, diventando l’unico sincero epitaffio alla memoria di Agnes, che nell’ultima inquadratura si volta a guardarci negli occhi, prima di scomparire nelle parole che da quel momento l’hanno eternata.
La poesia di Mija è la poesia di un cinema del quale sentiamo sempre più la mancanza: un’arte della parola e dell’immagine che, come la composizione in versi, il mondo sembra aver obliato e calpestato, ma resiste anche nelle sue forme più sentite e spontanee, e in irripetibili congiunzioni tra verità e racconto come questo gioiello del più autentico arthouse cinema.


Note:

[1] Romain Chareyron, Gender at/as Play in Céline Sciamma’s Tomboy (2011), Washington State University
[2] Augustin Foureau, Analyse du rythme dans Rosetta de Jean-Pierre et Luc Dardenne (1999)
[3] Kent Jones, Rosetta. Radical Economy, The Criterion Collection, agosto 2012
[4] Germaine Lim, Rosetta – Understanding human psychology with Dardenne Cinema, SP Film Journal, 2013
[5] Jonathan Romney, The Double Life of Véronique: Through the Looking Glass, The Criterion Collection, 2006
[6] Paul C. Santilli, Cinema and Subjectivity in Krzysztof Kieslowski, Journal of Aesthetics and Art Criticism 64 (1), 2006
[7] Ray Carney, The Films of John Cassavetes. The Adventure of Insecurity, 2000
[8] Jennifer Sin, ‘A Woman Under the Influence’: Performance and Realism, 2012
[9] R. Carney, op.cit.
[10] Intervista a Lee Chang-dong su Electric Sheep Magazine, 2011
[11] ib.


Michele Palozzo è critico e curatore musicale indipendente. È redattore stabile della webzine Ondarock.it, per la quale coordina la sezione altrisuoni. È co-fondatore e direttore artistico del progetto culturale Plunge, attivo a Milano nell’ideazione e organizzazione di concerti ed eventi performativi dedicati alle più interessanti espressioni sonore contemporanee.