L’ultimo trip.
An Index of Metals di Fausto Romitelli
| Autore: Michele Palozzo |
Trascorsi quindici anni dal completamento del suo magnum opus “An Index of Metals” – e in seguito alla sua prematura scomparsa – Fausto Romitelli è rimasto l’autore più innovativo e lungimirante della musica contemporanea italiana. L’energia prorompente e abrasiva delle sue partiture non soltanto gli è sopravvissuta, ma ci giunge oggi come un terrificante monito che ogni volta, immancabilmente, torna a scuotere dalle fondamenta la nostra percezione sensoriale.
Nella figura di Romitelli si è realizzato un possibile compimento del lungo e diversificato processo di destrutturazione del linguaggio classico, avviato nel secondo Dopoguerra e diramatosi in innumerevoli ricerche a livello locale, se non addirittura individuale. “Oggi l’epoca non è più quella delle grandi correnti né delle loro opposizioni. La nozione di “mixing” le ha sostituite in maniera assai interessante.” (Octors) [1]
È l’epoca dell’ibridazione, di un rapporto più che mai problematico tra sorgenti sonore eterogenee – acustiche, elettroacustiche e digitali –, un coacervo talmente complesso e inestricabile che “la necessità dello scritto non è più un’opzione esclusiva per un compositore. Con le registrazioni, i media, il computer e l’elettronica, la scrittura, per non essere obsoleta, deve più che mai giustificarsi. È essa il solo mezzo per produrre la musica che immaginiamo? Occorre porsi la domanda prima di scegliere la sua modalità di codificazione, grafica o d’altro tipo.” (ib.)
“Il compositore come virus”, titolava il saggio-manifesto del compositore goriziano, che nel pieno della sua maturità artistica si è dedicato anima e corpo a forgiare un’estetica musicale iper- e post-moderna, un linguaggio viscerale e fortemente contrastato, “la [cui] destinazione è lo smarrimento, il suo esito la dissoluzione.” (Mazzolini) [2]
L’idea del suono come campo di forze è rielaborata a partire dalla fondamentale lezione degli spettralisti francesi, dove ‘spettro’ va inteso non come presenza fantasmatica, ma come traiettoria di movimento incessante tra scale di grandezza opposte e complementari, “tra macrocosmo e microcosmo” (Gérard Grisey). Il linguaggio ibrido di Romitelli si evolve progressivamente in una produzione che in ultima istanza si presenta come una serie di studi psicoacustici sull’alterazione del DNA sonoro. Inizialmente, l’elemento chiave di questa travagliata metamorfosi è stato l’ensemble belga Ictus, fondato nel 1994 da Jean-Luc Plouvier e ancora oggi diretto da Georges-Elie Octors, nel quale Romitelli trovò il suo alter ego espressivo più dedito e fedele: fu infatti la formazione nord-europea a firmare la prima uscita discografica a lui dedicata, “Professor Bad Trip” (Cyprès, 2003), una raccolta rivelatoria che spalancò le porte di un universo sonoro vorace e deformante, uno sguardo urticante al confine estremo fra realtà presente e distopia, proprio come le visioni cyberpunk dell’omonimo illustratore cui si ispira il trittico, composto tra il 1998 e il 2000.
È anche da questa fondamentale collaborazione che prenderà forma l’opera audio-video “An Index of Metals”, la cui suggestione originaria deriva da un dipinto del pop-artist Roy Lichtenstein, nel quale una ragazza sta annegando tra i flutti di un mare freddo e incolore, che l’occhio di Romitelli vide però come metallo liquido anziché acqua salata. Di qui l’immaginazione ha condotto l’autore al racconto in stile libero “dell’assimilazione di una ragazza da parte del mondo delle macchine”, per mezzo di un impianto sonoro e visivo che, a un livello più assoluto, giunge a “rappresentare la conquista del rumore sul suono, che si fa esuberante fino alla saturazione, collassando nel silenzio.” (Conti) [3]
Tra le correnti di questo magma sonoro si fa strada il testo della poetessa Kenka Lekovitch, affidato alla soprano Donatienne Michel-Dansac: come il canto sperduto di una novella Erwartung schoenberghiana, esso “si impregna di una materia linguistica ibrida, vischiosa, simile a quella nella quale precipita la protagonista di questo dramma senza tempo […] A pronunciarlo è una voce dal profilo neutro, non connotato, quasi interamente fuso al processo.” (Arbo) [4]
La gestazione di quest’ultimo capolavoro avvenne nella fase appena precedente al ricovero in ospedale per una grave malattia che lo avrebbe condotto a una morte prematura il 27 giugno del 2004. Ricorda Jean-Luc Plouvier: “La Partitura di An Index of Metals fu scritta da Fausto Romitelli in cinquanta giorni, lavorando per quindici ore al giorno durante le ultime settimane della sua vita cosciente. Egli si era rigorosamente prefisso di oltrepassare una soglia, di infrangere una diga. Ed è in questi termini la dichiarazione d’intenti che ci ha lasciato, di stile tutto marinettiano e farcita di estremismi verbali: rave party, celebrazione dei sensi, ai limiti della percezione, trance, rito iniziatico, cattura, immersione, assassinio.” [5]
La stretta concordanza tra la partitura e i visuals realizzati da Paolo Pachini e Leonardo Romoli rende di gran lunga preferibile la fruizione dell’opera nel suo insieme: sebbene esistano due diversi montaggi video, la versione più autentica è quella che prevede tre schermi/riquadri affiancati, “unisono” visivo che rispecchia con assoluta efficacia i moti inversi delle parti musicali, e che Romitelli intende “come delle sculture sonore, destinate a rivelare, in accordo con l’immagine, “la loro natura intimamente violenta e assassina”. (Conti)
L’ingresso incerto e ridondante annuncia, a mo’ di prologo, il cortocircuito scatenante della narrazione: l’emblematico incipit della floydiana “Shine On You Crazy Diamond” inciampa sulla tonalità di Sol minore, oscillando e riavvolgendosi su se stesso come un vinile che cede all’avanzare inesorabile della dimensione digitale. Un bordone sotterraneo sovrastato da un acuto perforante ci conduce verso una sequenza d’impalpabile ma crescente inquietudine, scuramente soffusa e associata a immagini di vetri scheggiati, rifrazioni di luce e close-up su bronzi ricurvi e irregolari. Da un crescendo d’archi in glissando si apre lo squarcio improvviso della chitarra distorta, poi i glitch in stereo dei Pan Sonic – materia prima concessa dal duo finlandese per gli intermezzi dell’opera – un freddo battito regolare che anticipa il debordante ingresso nel vivo della composizione.
she suddenly fell
in a metal-miso hell
a loop of seaweed soup
pieces of milky broken glass
leaves of red copper rust
industrial noisy dust
(“Hellucination 1: Drowningirl”)
Roy Lichtenstein, Drowning Girl, 1963
Olio e pittura polimerica sintetica su tela, 171.6 x 169.5 cm
MoMA, New York
Da qui l’ensemble va calandosi a più riprese in un caos controllato, nel mezzo del quale una rapida progressione di note ascendenti al pianoforte, memore del tardo Morton Feldman, prelude a ciascuna nuova immersione in apnea, contrappuntata da un fiammeggiare di luci colorate che si agitano a intermittenza sulle superfici metalliche.
Come al varcare la soglia di uno specchio, la realtà si capovolge in una prospettiva vieppiù disorientante: la voce amplificata si disperde in eco, i live electronics trattengono, modellano e muovono nello spazio acustico le varie sorgenti in un impasto estremamente malleabile, all’interno del quale ‘analogico’ e ‘digitale’ perdono la loro consueta significanza e specificità.
Siamo vicini al compimento della prima “Hellucination”: superfici liquefatte alla Burri e pattern tissurali si sovrappongono generando autonomamente effetti caleidoscopici; il pianoforte si sdoppia tra una scala ascendente e una discendente, così come i furiosi archi e fiati alimentano la costante sensazione allucinatoria, autentica cifra distintiva del Romitelli maturo.
Accordi di chitarra alla Robert Fripp traghettano la composizione verso l’Adagio, che limita per un breve lasso la gittata delle possenti forze in gioco: gocce mercuriali rimbalzano e si frangono sullo schermo, vorticose e sempre più fitte, e “dal loro precipitato si eleva il canto della seconda allucinazione, destinato a ricadere ossessivamente sulla stessa nota (re) e sulla parola chiave ‘noise’. Dopo aver evocato nel megafono le parole di Jim Morrison (“Steel thrust sucking space”) la voce si assottiglia in un respiro, per poi unirsi al ritmo crudele e ieratico della massa sonora.” (Conti)
Murder by guitar,
nickel you are
but when I pierce and fix
your smile
to dive in and dive
you rise on and rise
infected by noise
(“Hellucination 2: Risingirl”)
Stato liquido e gassoso si contaminano in forme inedite, e le scie in movimento offrono un primo scomposto sguardo sulla conformazione industriale di una centrifuga. Dominano l’ultima Cadenza, infatti, cilindri rotanti dentro i quali volteggiano rifiuti di ogni colore: la chitarra hendrixiana imita l’attacco di Shine On, crea un basamento in loop rovesciato e passa a un dialogo a senso unico con le sue stesse modificazioni elettroniche, moltiplicate e roboanti. È l’estremo, dilaniato ruggito che segna l’epitaffio del rock come del classicismo, affogati nell’acido e nella frammentazione digitale della contemporaneità. Un ultimo glitch tronca improvvisamente la scena, non c’è sipario, solo un buio completo e senza ritorno.
Note:
[1] Isabelle Françaix (a cura di), Georges-Elie Octors – L’aventure humaine avant toute chose, 2012, www.musiquesnouvelles50ans.wordpress.com ↑
[2] Marco Mazzolini, Il Bad Trip di Romitelli, note di copertina per “Audiodrome [Orchestral Works]”, CD, Stradivarius, 2007 ↑
[3] Jacopo Conti, “Corroded by noise. Il suono di Fausto Romitelli”, Musica/Realtà, n.96, LIM, 2011 ↑
[4] Alessandro Arbo, An Index of Metals. Diario di un pessimo, sublime viaggio nella materia, saggio contenuto nel libretto del CD+DVD, Cyprès, 2006 ↑
[5] Jean-Luc Plouvier, note di copertina per “An Index of Metals”, Cyprès, 2005 ↑