Studiosa della voce e performer, facilitatrice di Deep Listening e curatrice indipendente, Diana Lola Posani è la fondatrice di AKRIDA, un festival nomade di sound art che ha visto la sua prima edizione a Milano lo scorso anno con artiste come Merlin Nova, Clara de Asís, Janneke Van Der Putten e Rie Nakajima e che oggi si prepara verso nuove tappe.

AKRIDA è un festival corporeo che si basa su un assunto essenziale: il suono è la modificazione dello spazio esperito con il corpo e dà spazio ad artiste che hanno un rapporto molto stretto con l’organico, il materico, con le texture dei loro strumenti come quelle della voce.

Mettere al centro individualità libere di autodefinirsi con la propria corporeità e le proprie pratiche, con una visione acuta e personale, è parte del lavoro di Posani, la cui poetica spazia in un vasto orizzonte di indagine filosofica e sensoriale attraverso il gesto e la sperimentazione vocale.

Come nasce il festival Akrida e quali sono le tue guidelines come direttrice artistica?
Il festival Akrida nasce da uno spazio che sentivo andava riempito. Crescendo ho avuto modo di seguire la programmazione di alcuni spazi che presentavano proposte legate alla sperimentazione performativa e musicale, qui a Milano. Mi ricordo però la sensazione di essere fuori posto, in un mondo chiuso dove tutti si conoscevano e ti squadravano per capire se eri all’altezza, se facevi parte del contesto.

Mi sono immaginata un festival che fosse casa, dove chiunque poteva assistere e sentirsi a suo agio, scoprendo qualcosa di nuovo, magari cose che normalmente non avrebbe mai ascoltato. Nell’arte il concetto di Alterità rispetto ad una norma, dovrebbe semplicemente non esistere, o perlomeno ridursi rispetto alla realtà quotidiana. Le guidelines si sono definite quasi a posteriori: arrivando da un background più artistico che
organizzativo mi sono approcciata alla programmazione con un atteggiamento compositivo, dove a guidare era molto più l’intuito, o l’armonia tra elementi, rispetto che il concetto.
Per certi versi il mio modo di operare è molto semplice, si muove attorno alla domanda: chi deve essere sentito?
A chi devo affidare lo spazio per far sentire la propria voce? A quel punto i contorni si tracciano in modo naturale.
La sound art è un territorio ibrido che unisce aspetti musicali, arti performative, talvolta la testualità, le arti digitali così come istanze totalmente acustiche e che si sviluppano in relazione allo spazio fisico.

Cosa ti ha portato dentro i confini ampi di questo campo di ricerca?
La sound art per me è un contenitore, un’etichetta vaga e forse un po’ fumosa ma che mi dà la libertà di muovermi tra le discipline che ho avuto modo di praticare nel corso degli anni, senza perdere troppo tempo nel rispettare una coerenza. Non saprei nemmeno rintracciare il momento in cui ho sentito parlare di questo concetto per la prima volta. Facendo ricerca in ambito musicale e contemporaneamente in ambito performativo rimanevo molto colpita da persone che sembravano aver creato una lingua propria, e spesso mi capitava di leggere la definizione “sound artist”. L’associazione sound art e libertà si è creata subito. Per certi versi penso di non aver mai scoperto la sound art come genere o come scena, ma di essermi resa conto che quello che stavo facendo (e quello che sognavo di fare) poteva essere definito con questa espressione. La mia attenzione al suono ha fatto si che facessi sound art quando frequentavo la scuola di cinema, quando studiavo pratiche performative, quando scrivevo. L’importante è sempre stato far sì che il suono rimanesse il punto di partenza e il punto d’arrivo. Negli anni sto cercando di trovare un mio modo per accogliere la fluidità, nel pensiero, e nell’espressione artistica, e questo termine che significa tutto e nulla mi aiuta ad andare incontro
alla molteplicità che fa parte della mia natura.

Sei anche facilitatrice di Deep Listening, in cosa consiste questa pratica e come si articola il tuo lavoro vocale in sinergia con le pratiche di ascolto profondo?

Il deep listening è un metodo ideato dalla compositrice americana Pauline Oliveros, composto da un insieme di pratiche che conducono il praticante dall’azione di sentire a quella di ascoltare. Con sentire si intende un’azione involontaria gestita dalle nostre orecchie, che sono perennemente in stato ricettivo, mentre l’elaborazione dei suoni è un’azione legata al sistema nervoso, ed è molto più ricca e complessa. Ascoltare è un’arte, non è affatto automatico, è una capacità che va sviluppata. Pauline Oliveros ha elaborato scores ed esercizi per stimolare la consapevolezza del paesaggio sonoro esterno e interno a noi (i suoni del nostro corpo, dei nostri pensieri, dei nostri sogni). Esplorare questo tipo di approccio è stato uno sviluppo organico del lavoro di ricerca che già stavo facendo con la voce attraverso la Funzionalità Vocale, un metodo per la voce incentrato sull’ascolto propriocettivo del corpo e del suono nello spazio. Per anni non ho fatto altro che cantare suoni e ascoltarne la brillantezza, il colore vocalico, il movimento delle frequenze nello spazio.
Il piacere dell’emissione è completamente bilanciato dal piacere della ricezione, sia del proprio suono che di quello degli altri. Questa pratica di canto orientata alla percezione dello spettro armonico si basa su un
principio che si chiama circuito audio-fonatorio, teorizzato da Alfred Tomatis, otorinolaringoiatra e ricercatore francese. Il nome audio-fonatorio è abbastanza esplicativo di per sé, parla della connessione
tra laringe e orecchio. Secondo Tomatis infatti la voce di una persona contiene solo le frequenze che l’orecchio è in grado di ascoltare. Ciò che non sentiamo non possiamo riprodurlo. Questo conduce ad implicazioni molto interessanti, tra cui la più semplice è: per imparare a cantare bisogna imparare ad ascoltare.

Qual è stata l’esperienza sonora e/o performativa che ha avuto più impatto su di te?
Non credo che ci sia stata un’esperienza più segnante rispetto alle altre, ho avuto il privilegio di poter vedere e sentire tante cose che sono state significative per la mia crescita artistica. In alcune esperienze ho avuto la fortuna di intuire una qualità non ordinaria, o forse una risonanza rispetto a qualcosa di mio che non era ancora venuto alla luce.

Mi viene in mente la performance della compagnia Dewey Dell Deriva Traversa, il lavoro della cantante Merlin Nova, o alcune voci sentite al buio in camera mia, come alcuni radiodrammi sperimentali o la musica di Jean Marie Massou. Tutti frammenti di un mistero da decifrare. Molte delle esperienze sonore sono capitate in momenti di vita quotidiana: campane stonate in lontananza mentre la corrente disegna geometrie inaspettate sull’acqua, una vecchia signora che canta mentre scende delle scale di pietra… ma non ne tengo un archivio mentale. Lascio che si dissolvano nel mio inconscio, o dovunque abbiano deciso di abitare dentro di me, sono certa che la sparizione sia solo apparente. Spero anzi, che sia un segnale di assorbimento, e che quando creo un po’ di quella meraviglia si riversi nelle mie scelte formali.

Il tuo lavoro come curatrice indipendente unisce il suono al discorso teorico e in particolare ad istanze femministe e post-coloniali. Pensi che questi due mondi possano alimentarsi a vicenda e quali sono le pratiche che secondo te favoriscono questo dialogo?

Ho avuto modo di esplorare questa connessione durante la Listening Academy, una piattaforma di scambio tra ricercatori di diverse discipline, tutti accumunati dall’interesse trasversale per l’ascolto profondo.
Questo scambio era moderato dai sound artists Brandon LaBelle, Buddharaya Chattoparyay e Carla J. Maier.
È stata un’esperienza molto intensa di immersione in quello che LaBelle definisce “sonic agency” ovvero una forma di attivismo che considera il suono come un mezzo di resistenza.
In quell’occasione ho avuto modo di conoscere i mille modi con cui il suono può essere fonte di cambiamento: il ruolo della lingua nel contrasto ai totalitarismi attraverso la radio, il field recording in rapporto al cambiamento climatico, l’ascolto come metodologia di de-colonizzazione del pensiero, e tantissime altre prospettive.
Nell’antologia Sounding the margins Pauline Oliveros dice:
“I recognized that being heard is a step towards being understood. Being understood is a step towards being healed”
Tutti questi temi, transfemminismo, decolonizzazione, sono accumunati da un bisogno di empatia consapevole, un’empatia che da disposizione istintiva e indifferenziata diventa una qualità del pensiero.
È interessante perché si tratta del corpo che struttura la mente, essendo questa un’ apertura in primo luogo corporea.
Insegnare l’empatia è difficile, soprattutto se non la si vuole normativizzare, e credo che il punto di partenza possa essere il corpo.

Su cosa si fonda l’idea di rete che istituisci tra le musiciste / le identità per cui hai pensato Akrida? 

L’idea di rete si fonda sull’idea di offrire sollievo.
C’è una grande fatica prima di tutto umana, nell’affrontare tanti aspetti del fare musica.
Negli anni mi è capitato di conoscere musiciste incredibili, tutte stanche e deluse dall’affrontare l’atto creativo (che è intrinsecamente un atto coraggioso) come delle solitarie combattenti.
Ho trovato grande disagio soprattutto tra le autrici della propria musica, che cercavano di sostenere nel modo migliore possibile, che per le donne spesso coincide col modo più silenzioso e discreto, il peso dell’esporsi creativamente e far sentire la propria voce, in un sistema che non ti premia ma al contrario spesso ti umilia.
La rete è essenziale per capire che nessuna di noi è sola, che molte domande e paure non sono questioni individuali ma collettive perché generate da errori sistemici.
Una volta stabiliti legami profondi, non importa più che la tua collega abiti in un’altra città, o un altro Stato. Siamo insieme.

Sono anche interessata all’idea di unire persone con un metodo di lavoro affine, un metodo di lavoro che è profondamente intessuto nello stile di vita. Ciascuna di queste artiste ha creato una sua ritualità, una modalità unica di vivere una vita a contatto con la sacralità del suono.
L’arte diventa così una delle Vie, insieme a tutto il resto: quando alzarsi e coricarsi, l’alimentazione, l’amore, le letture… Abbiamo imparato tanto l’una dall’altra e al tempo stesso è stata un’occasione di celebrazione della propria unicità.

Qual è il futuro di Akrida?

AKRIDA ha avuto il ruolo fondamentale di farmi inquadrare con più precisione alcuni temi che poi sono stati assorbiti da qualsiasi mia attività, artistica o curatoriale. Per certi versi ha avuto una carica germinativa che non si è più spenta, e che ritrovo in collaborazioni artistiche innestate sulla sorellanza e sulla dignità del sentimento.

A livello più pratico, mi sono ripromessa che la prossima edizione sarebbe nata da un incontro, con uno spazio, un collettivo, qualche alterità che si riconosca in questo progetto e che lo sostenga entrando a far parte del processo di cura Fino a quel momento mi auguro di essere una buona guardiana dell’anima del festival. Altri formati stanno prendendo forma: un’etichetta, proposte laboratoriali

Chi ha apprezzato quell’esperienza avrà presto nuove modalità per godere della forza e della bellezza rivoluzionaria dei margini.