Siamo in dialogo con Daniele Di Girolamo (Pescara, 1995), artista tra visualità e sound art la cui ricerca si concentra sul rapporto tra processi naturali e attività umane nel paesaggio e alle dinamiche di lettura che ne scaturiscono.

Insieme a Luisa Badino, è uno dei due vincitori dell’Open Call indetta da OTTN Projects, una selezione che prevede la curatela di una mostra personale in Italia, una mostra collettiva all’estero, una residenza presso Pioneer Works (Brooklyn) finanziata da OTTN Projects, la condivisione del database di contatti, la disponibilità di studi per la produzione artistica, il coinvolgimento dell’artista nei progetti di Contemporary Italian, il supporto all’immagine e una pubblicazione.

Il progetto sviluppato da Daniele Di Girolamo con il supporto di OTTN è l’album WHY CONTROL EVERYTHING? che nasce in seguito alla raccolta di un materiale sonoro unico: le proteste di Hong Kong iniziate nel 2019. Composta da Giorgia Ori, Federica Pilloni, Carlotta Roma, Francesca Rossi, Micol Teora ed Erika Garibazzi, OTTN Projects è una associazione no-profit i cui progetti creano connessioni tra arte e pubblico, attraverso nuovi metodi espositivi e forme di comunicazione innovative.  OTTN Projects si dedica al supporto della comunità degli artisti e a progetti che avvicinano il vasto pubblico all’arte, come eventi espositivi, podcast e cross-collaborations

Vorrei iniziare dalla tua ultima produzione, un album che nasce ad Hong Kong in un momento molto particolare… Com’è iniziata la raccolta dei materiali che costituiscono l’album e come si è articolata / si articola la collaborazione con OTTN?

La raccolta di materiali è iniziata quasi per caso. Mi trovavo ad Hong Kong per uno scambio di studi presso l’Academy of Visual Art e lì mi sono ritrovato nel pieno delle proteste (fine Agosto-inizio Dicembre 2019) che poi ho iniziato a seguire sempre più da vicino, portando con me registratori audio. Volevo documentare le situazioni che più mi interessavano e non essendo un bravo fotografo mi sono dato al field recording, molto più comodo e immediato per me, e quindi molto più sicuro nelle situazioni in cui ci toccava correre. Da questo archivio ha preso consistenza poi un album dal titolo WHY CONTROL EVERYTHING? che contiene esclusivamente quelle registrazioni, alcune molto processate ed altre lasciate più grezze, il tutto rielaborato alla insegna di una narrazione visiva. Iniziando la collaborazione con OTTN da marzo 2020 ho condiviso con loro ciò su cui sto lavorando e mi stanno aiutando nella produzione del disco, essendo quasi l’unico lavoro che ho potuto ultimare durante il periodo di lockdown. Poi magari riusciremo a organizzare una pubblicazione e qualche performance, ma questi sono dubbi e problematiche che riguardano tutto il mondo dello spettacolo e della cultura adesso.

Il formato “album” appartiene alla musica, ma sappiamo che la tua ricerca spazia tra vari formati, in particolare tra visualità e suono…

Sì, il formato di “album musicale” è la prima volta che lo affronto da solo, ed è la prima volta che lo affronto con la precisa intenzione di declinarlo anche nell’ambito delle arti visive. Infatti la dimensione sonora è quasi sempre presente nei miei lavori. Cerco sempre  di creare un ambiente che, secondo me, per avere una forte intimità della sua percezione e soprattutto per una questione di completezza, ha bisogno di una dimensione sonora oltre che visiva. Più che altro per le proprietà del suono che tantissimi ricercatori hanno evidenziato, ovvero che  è un mezzo che riesce collegare tutti i tipi di corpi e cose, attraverso la vibrazione fisica e le informa­zioni che porta. Infatti esso riesce a creare e a farci scoprire relazioni che rimangono nascoste, che siano legami o contrasti in un ambiente. Brandon LaBelle spiega molto chiaramente come una sensibilità sonora è un modo per vedere le dinamiche invisibili sotto la superficie del mondo visivo.  Inoltre il suono è un elemento molto forte, pungente e insidioso, ti attraversa e ti tocca fisicamente e psicologicamente senza che tu abbia molte difese. Oltre le caratteristiche del suono sono implicati per forza lo spazio e l’ascolto, quindi della relazione tra il suono e l’ambiente attraverso il punto di vista della sua diffusione e il modo in cui il sonoro è contem­poraneamente un ambiente fisico e un modo di percepire questo.Quindi la parte visiva e la parte sonora non devono essere concepite come scollegate, ma bensì facenti parte della stessa rete di relazioni che poi configurano l’ambiente, il paesaggio. Cerco ogni volta di porli non come due dimensioni diverse ma di intersecarli, fonderli, provare a farle diventare facce della stessa medaglia, dove entrambe sono solo diverse declinazioni o sfumature di questa medaglia che è l’ambiente, il paesaggio, il luogo in cui siamo immersi e in cui viviamo, e che esperiamo codificandolo in queste declinazioni.


photo courtesy Stefano Maniero / Galleriapiù

Altri tuoi lavori mi sembra riflettano più sul suono come materia… sulla sua azione morfogenica nel paesaggio e nello spazio urbano, mi riferisco a lavori come Sky Above / Sea below

Dunque, c’è quest’al­tro punto che riguarda “ciò che ascoltiamo” e la considerazione del suono attra­verso il suo processo materiale, e questo processo in relazione alla nostra perce­zione. Il suono implica sempre un’attività in atto, quindi un qualcosa che accade e che genera suono. Lo stesso suono a sua volta mette in moto delle materialità. Questo si intende come relazione fra corpi, questa capacità di influenzare la rete di relazioni in cui è immerso e di esserne influenzato (e qui ho rubato la descrizione del concetto di “Agency” da Vibrant matter di Jane Bennett). Questo potere morfogenetico è ciò che Sky Above, Sea Below ha voluto sottolineare. In questa mostra, realizzata a quattro mani con Manrico Pacenti (autore delle installazioni a muro) presso Gallleriapiù, abbiamo pensato a come proporre un ambiente. Qui il suono invade tutto lo spazio della galleria ed è anche la causa di tutte le forme che si generano, ma in maniera estremamente sintetica, diretta ed astratta rispetto a ciò che succede normalmente nel mondo fisico o rispetto alle più recenti ricerche nel campo scentifico sul potere delle onde sonore. Abbiamo voluto palesare questo usando mezzi semplici come la cimatica per quanto riguarda le vasche e l’ibridazione digitale che trova spunto nelle tecniche del glitch. Questi mezzi trovano una loro giustificazione nella rete di relazioni che vanno a creare: il suono modifica la forma dell’acqua ed i vettori delle strutture digitali in 3d, successivamente stampate e montate. Questo suono consisteva in dei feedback acustici, considerati come ciò che potesse rappresentare in maniera astratta la Relazione (tra input e output sonoro). Questo perchè ci interessava più che il fenomeno in sé quello che esso andava a rappresentare, ovvero la presenza di questa rete di relazioni che generano lo spazio ed il potere del suono nell’influenzarne le forme. Questa capacità del suono non si limita solo a ciò, ma si allarga anche all’influenzare comportamenti e dinamiche sociali, aspetto che ho voluto indagare con Bells Breathe Wildly.

photo courtesy Stefano Maniero / Galleriapiù

Su cosa si basa quest’altro progetto?

In questo caso mi sono focalizzato sul ritmo delle campane di Guilmi, (CH), paesino dell’entroterra abruzzese, durante una meravigliosa residenza curata da Guilmi Art Project, un’associazione che invita e ospita biennalmente degli artisti. Il suono contiene sempre delle informazioni, ed in questo caso le campane, con le loro intonazioni ed il loro ritmo, hanno sempre informato la comunità per scandirne le attività (lavoro, messe, defunti, allarmi, orari, ma anche per scacciare il brutto tempo!). Quello che mi interessava era modificare questa relazione tra noi e ciò che ci comunicano le campane modificandone le dinamiche (il ritmo) dell’elemento sonoro, per ottenere di conseguenza il risulato di una differente comunicazione. In sintesi ho alterato il suono delle campane, registrando tutto ciò che potessero comunicare nell’arco di una settimana per poi rielaborarlo in un’unica traccia sonora molto fluida in cui l’attacco delle campane è stato cancellato, preservandone solo le code. Questa traccia poi l’abbiamo riprodotta con un impianto audio dentro la torre dell’acqua dello stesso paese, a pochi metri dal campanile. Imitando un ritmo più fluido come quello dell’acqua, ecco che le stesse campane comunicavano qualcosa di diverso dal ritmo delle nostre attività quotidiane. Non mi interessava controllare ciò che il suono comunicava, anzi, ho voluto attivare nuove relazioni per creare un terreno fecondo di differenti possibilità di comunicazione. Se posso essere ridondante, anche per fare un’operazione del genere lavorare sulle relazioni è tutto, senza Guilmi Art Project sarebbe stato impossibile.

Processare, rielaborare un suono “raccolto”. Fin dove può portare questo processo nel tuo lavoro?

Per risponderti devo approfondire un punto di cui ho parlato prima: il processo materiale del suono in relazione alla nostra esperienza. I nostri processi cognitivi sono il modo di acquisire e rielaborare le informazioni e, a seconda delle vie di rielaborazione, si ottengono diverse informazioni dell’oggetto di interesse (il suono in questo caso). Queste informazioni non sono solo caratteristiche fisiche ma anche simboliche, culturali, emotive, verbali, extra-verbali e così via, e queste caratteristiche formano il senso dell’oggetto, influenzano e cambiano ciò che è l’oggetto stesso. Ad esempio tramite l’idrofono la nostra visione del paesaggio marino è mutata totalmente, e con l’analisi di una sua registrazione siamo capaci di leggerne caratteristiche e dinamiche rimaste irraggiungibili prima della sua invenzione.  Ora, a me piace pensare al processare un materiale come se fosse un’estensione dei nostri processi cognitivi che processano appunto un’informazione, almeno per quanto riguarda la mia pratica. Ciò che voglio dire è che con i processi cognitivi capiamo quali strade queste informazioni seguono, mentre, nella pratica artistica, voglio indagare quali stra­de invece potrebbero seguire. Il punto è questo: un singolo elemento contiene una vasta quantità di informazio­ni che si svelano a seconda della via con cui si decide di analizzarlo. Processare un suono per me vuol dire dunque andare ad indagarne diversi aspetti, magari tra i più nascosti, e ricombinarli, seguendo sempre una precisa logica che può variare da lavoro a lavoro, ma che c’è sempre. Ad esempio in Sky above, Sea below il suono segue la logica di “potere morfogenetico”; in Bells Breathe Wildly seguo una logica di rielaborazione ritmica, dove i suoni originali sono stati alterati molto poco, cioè soltanto cancellando l’attacco e accostando tutte le code, mentre nell’album di Hong Kong seguo una logica di rielaborazione emotiva e di narrazione visiva dove sono intervenuto pesantemente in molti suoni per evocarne/estrarne dinamiche, tensioni, climax, emozioni che comunque appartengono a quel suono e che ci si nascondono, ecc. I modi quindi sono infiniti, dipende ogni volta dal metodo con cui stai affrontando un lavoro.  Mi piace tentare di lavorare in quello spazio nel mezzo, che non si tratta della relazione tra soggetto e oggetto ma piuttosto dell’intersezione tra due mondi.

Alcuni dei tuoi progetti sono realizzati in collaborazione con Giacomo Guidetti, come si articola questa collaborazione? Stai sviluppano altre collaborazioni con discipline diverse dal suono?

Questa collaborazione in realtà è venuta un po’ naturalmente, visto che io e Giacomo suonavamo già nel progetto musicale KA. Dato che in noi c’è sempre l’eterno problema (che può essere una qualità ma che porta con sè una serie di problematiche molto concrete) dello stare nel mezzo tra un mondo più musicale da concerto in live club e uno più artistico, abbiamo voluto sperimentare in situazioni più da performance sonora, sfruttando anche le mie mostre in cui ampliamo le installazioni proposte. Durante la residenza a Guilmi abbiamo allungato un microfono fin sopra il campanile per poi performare nella piazza sottostante, campionando le campane dal vivo e seguendo una logica del tutto simile a Bells Breathe Wildly, o, ancora, abbiamo performato durante la mostra in Gallleriapiù registrando dal vivo l’installazione e continuando a stratificare feedback.Un’altra collaborazione a cui tengo molto è quella con il fotografo Carlo Lombardi, che è stata molto formativa per me. Abbiamo sperimentato in diversi modi: inizialmente lui usava alcuni miei audio in supporto al suo progetto Dead Sea presentandolo nei festival di fotografia in giro per l’Europa, poi io ho manipolato alcune sue fotografie ottendendo come risultato il lavoro Approfondire, in cui il suono andava a rimuovere alcune informazioni digitali della fotografia del mare così da ottenere un ulteriore onda fatta di pixel alterati, risultato dell’interferenza dei miei rumori col file digitale. Abbiamo sviluppato anche progetti a quattro mani che speriamo possano venire alla luce presto. Mentre la collaborazione con Manrico Pacenti e le ibridazioni dei miei suoni con i suoi modelli 3d è stata davvero molto stimolante per capire in quanti modi un suono può essere utilizzato tramite altri passaggi o processi, dove il risultato è privo di una parte udibile, anche se il suono in qualche modo c’è.